L’atto di prendere rifugio segna il momento in cui ci si impegna ad assumere il Dhamma, o l’insegnamento del Buddha, come guida primaria per la condotta della propria vita. Per capire perché questo impegno è chiamato “rifugio”, è utile guardare alla storia di questa usanza.
Nell’India pre-buddhista, prendere rifugio significava proclamare la propria fedeltà a un protettore – una persona potente o una divinità – sottoponendosi alle sue direttive nella speranza di ricevere in cambio protezione dai pericoli. Nei primi anni della carriera di insegnamento del Buddha, i suoi nuovi seguaci adottarono questa usanza per esprimere la loro fedeltà al Buddha, al Dhamma e al Sangha, ma nel contesto buddhista questa usanza assunse un nuovo significato.
Il Buddhismo non è una religione teista – il Buddha non è un dio – e quindi una persona che prende rifugio in senso buddhista non chiede che il Buddha intervenga personalmente per fornire protezione. Tuttavia, gli insegnamenti del Buddha sono incentrati sulla consapevolezza che la vita umana è irta di pericoli – dall’avidità, dalla rabbia e dall’illusione – e quindi il concetto di rifugio è una parte centrale del percorso di pratica, in quanto la pratica è volta a ottenere la liberazione da questi pericoli. Poiché sia i pericoli che la liberazione da essi provengono in ultima analisi dalla mente, sono necessari due livelli di rifugio: i rifugi esterni, che forniscono modelli e linee guida per identificare quali qualità della mente portano al pericolo e quali al distacco; e i rifugi interni, cioè le qualità che portano al distacco che sviluppiamo nella nostra mente per imitazione dei modelli esterni. Il livello interno è quello in cui si trova il vero rifugio.
Sebbene la tradizione di prendere rifugio sia antica, è ancora rilevante per la nostra pratica di oggi, perché ci troviamo di fronte agli stessi pericoli interni che affrontavano le persone ai tempi del Buddha. Abbiamo ancora bisogno della loro stessa protezione. Quando un buddhista prende rifugio, si tratta essenzialmente di un atto di rifugio nella dottrina del karma: è un atto di sottomissione, in quanto ci si impegna a vivere in linea con la convinzione che le azioni basate su intenzioni salutari portano alla felicità, mentre le azioni basate su intenzioni non salutari portano alla sofferenza; è un atto di richiesta di protezione, in quanto si confida che seguendo l’insegnamento non si cadrà nelle disgrazie che il karma negativo genera. Prendere rifugio in questo modo significa, in ultima analisi, prendere rifugio nella qualità delle nostre intenzioni, perché è lì che risiede l’essenza del karma.
I rifugi del Buddhismo – sia a livello interno che esterno – sono il Buddha, il Dhamma e il Sangha, conosciuti anche come la Triplice Gemma. Sono chiamate gemme sia perché sono preziose sia perché, nell’antichità, si credeva che le gemme avessero poteri protettivi. La Triplice Gemma supera le altre gemme in questo perché i suoi poteri protettivi possono essere messi alla prova e possono portare più lontano di quelli di qualsiasi gemma fisica, fino alla liberazione assoluta dalle incertezze dell’invecchiamento, della malattia e della morte.
Il Buddha, a livello esteriore, si riferisce a Siddhattha Gotama, il principe indiano che rinunciò ai suoi titoli reali e si ritirò nella foresta, meditando fino a raggiungere il Risveglio. Prendere rifugio nel Buddha significa, non rifugiarsi in lui come persona, ma rifugiarsi nel suo Risveglio: riporre fiducia nella convinzione che egli si sia risvegliato alla verità, che lo abbia fatto sviluppando qualità che anche noi possiamo sviluppare e che le verità a cui si è risvegliato forniscano la migliore prospettiva per la condotta della nostra vita.
Il Dhamma, a livello esteriore, si riferisce al sentiero di pratica che il Buddha ha insegnato ai suoi seguaci. Questo, a sua volta, si divide in tre livelli: le parole dei suoi insegnamenti, l’atto di mettere in pratica quegli insegnamenti e il raggiungimento del Risveglio come risultato di quella pratica. Questa triplice divisione della parola “Dhamma” è essenzialmente una mappa che mostra come prendere i rifugi esterni e renderli interni: imparare gli insegnamenti, usarli per sviluppare le qualità che il Buddha stesso usò per ottenere il Risveglio, e poi realizzare la stessa liberazione dalla sofferenza che egli trovò nella qualità dell’assenza di morte che possiamo toccare dentro di noi.
La parola Sangha, a livello esteriore, ha due sensi: convenzionale e ideale. Nella sua accezione ideale, il Sangha è costituito da tutte le persone, laiche o ordinate, che hanno praticato il Dhamma fino al punto di ottenere almeno un’idea dell’assenza di morte. In senso convenzionale, il Sangha indica le comunità di monaci e monache ordinati. I due significati si sovrappongono ma non sono necessariamente identici. Alcuni membri del Sangha ideale non sono ordinati; alcuni monaci e monache non hanno ancora toccato l’assenza di Morte. Tutti coloro che prendono rifugio nel Buddha, nel Dhamma e nel Sangha diventano membri della quadruplice assemblea (parisa) di seguaci del Buddha: monaci, monache, devoti laici uomini e devoti laici donne. Sebbene sia opinione diffusa che tutti i seguaci del Buddha siano membri del Sangha, non è così. Solo coloro che sono stati ordinati sono membri del Sangha convenzionale; solo coloro che hanno percepito l’assenza di morte sono membri del Sangha ideale. Tuttavia, i seguaci che non appartengono al Sangha in nessuna delle due accezioni del termine contano comunque come buddhisti autentici, in quanto membri del parisa del Buddha.
Quando si prende rifugio nel Sangha esteriore, si prende rifugio in entrambi i sensi del Sangha, ma i due sensi forniscono livelli diversi di rifugio. Il Sangha convenzionale ha contribuito a mantenere vivo l’insegnamento per oltre 2.500 anni. Senza di loro, non avremmo mai imparato ciò che il Buddha ha insegnato. Tuttavia, non tutti i membri del Sangha convenzionale sono modelli di condotta affidabili. Perciò, quando cerchiamo una guida nella condotta della nostra vita, dobbiamo guardare agli esempi viventi o documentati forniti dal Sangha ideale. Senza il loro esempio, non sapremmo (1) che il Risveglio è disponibile per tutti, e non solo per il Buddha; e (2) come il Risveglio si esprime nei vari aspetti della vita quotidiana.
A livello interiore, il Buddha, il Dhamma e il Sangha sono le qualità salutari che sviluppiamo nella nostra mente per emulare i nostri modelli esteriori. Per esempio, il Buddha era una persona di saggezza, purezza e compassione. Quando sviluppiamo saggezza, purezza e compassione nella nostra mente, esse formano il nostro rifugio a livello interiore. Il Buddha ha ottenuto il Risveglio sviluppando la convinzione, la perseveranza, la consapevolezza, la concentrazione e il discernimento. Quando anche noi sviluppiamo queste stesse qualità fino a ottenere il Risveglio, quel Risveglio è il nostro rifugio finale. Questo è il punto in cui i tre aspetti della Triplice Gemma diventano uno: al di là della portata della brama, della rabbia e dell’ignoranza, e quindi totalmente sicuri.