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La condizione della donna

Durante la sua predicazione, il Buddha sostenne sempre una fondamentale misoginia, al pari di tutti i filosofi dell’’antichità.
La donna era vista come una fonte di tentazione del tutto incompatibile con la vita ascetica; essa ovviamente non veniva condannata come persona, ma piuttosto come potere di seduzione che porta a quell’’attaccamento per la vita che, attraverso le generazioni, perpetua la condizione di “essere nel mondo” e vincola, di conseguenza, l’’individuo al suo dolore, alla sua cieca ignoranza, alla ruota delle rinascite.

Poiché l’’amore e l’’unione sessuale sono –secondo Buddha –le forme più primordiali in cui si manifesta la sete di vita, il Buddismo classico non poteva che negare alla donna la possibilità di giungere al Nirvana: l’’unica condizione, per una donna, era quella di estinguere in sé tutto ciò che è femminile, cioè in sostanza sforzarsi di sviluppare un pensiero maschile al fine di poter rinascere come “uomo”.

Solo dopo molte discussioni e polemiche, il Buddha consentì ad ammettere le donne fra i suoi discepoli, in comunità ovviamente separate, soggette a regole analoghe e, in più, alla sorveglianza da parte dell’’abate della più vicina comunità monastica maschile, con l’’obbligo inoltre di obbedire ai monaci maschi di qualunque età. A queste condizioni era possibile anche per loro raggiungere il Nirvana.

Questa forma di maschilismo è venuta attenuandosi col tempo, fino al punto che si è cominciato a produrre, sul piano artistico, delle figure mitiche del Buddha con aspetti femminili.
Va detto tuttavia che il Buddismo non interviene negli aspetti della quotidianità e neppure nelle vicende fondamentali della vita, come il matrimonio e la nascita dei figli, i cui riti si basano sempre su usanze locali.
Le regole di condotta previste dal Buddismo per la vita matrimoniale sono essenziali, basate sostanzialmente sul buon senso e quindi praticabili da chiunque.