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Kv 1.3: Brahmacariyakathā – Della vita superiore

Punto controverso: Non c’è una vita santa tra i deva.

Commentario: La vita superiore ha una duplice importanza: la cultura del sentiero e la rinuncia al mondo. Nessun deva pratica quest’ultima. Ma la prima non è loro vietata, tranne che a quelli del piano inconscio. Ma alcuni, per esempio i Sammitiya, non credono in alcuna cultura del sentiero tra i deva superiori del Kamaloka e, al di là di essi, del Rupaloka, giustificandosi con il passo del Sutta citato più avanti.

Theravāda: Negate la pratica della vita santa tra i deva; ma negate anche che essi siano fisicamente, mentalmente o moralmente imperfetti: che siano tutti stupidi, sordomuti, non intelligenti, che comunichino per segni e che siano incapaci di discernere il significato di ciò che viene detto bene o male; che manchino tutti di fede nel Buddha, nel Dhamma, nel Sangha; che non abbiano frequentato il Buddha Eccelso, che non gli abbiano posto domande e non si siano deliziati delle sue risposte; che siano tutti menomati dalle loro azioni, dalle corruzioni, dall’effetto delle loro azioni; che sono tutti senza fede, privi di scopo e di comprensione, incapaci di raggiungere il giusto ordine del sentiero nelle cose buone; che sono matricidi, parricidi, assassini di santi, spargitori di sangue santo, scismatici; che uccidono, rubano, immorali, bugiardi, maldicenti, vilipendiosi, chiacchieroni, dediti alla cupidigia, alla cattiva volontà e alle opinioni errate. Anzi, voi sostenete che lo sono e che praticano il contrario di tutto questo. Come potete allora dire che tra loro non c’è vita religiosa?

Sammitiya: Sostenete la tesi in modo affermativo, eppure negate che i deva pratichino la rinuncia al mondo, la tonsura, l’indossare le vesti ocra, il portare la ciotola del mendicante; negate che tra i deva compaiano un Risvegliato Supremo, o coloro che sono illuminati, o la coppia di discepoli principali. Dov’è allora la loro “vita religiosa”?

Theravāda: Siamo d’accordo che tra i deva queste pratiche e questi eventi non si trovano. Ma la vita religiosa si trova solo dove queste cose sono osservate – la rinuncia, la tonsura e il resto – e non dove non sono osservate? Solo lì, dite; eppure quando chiedo: “Colui che rinuncia al mondo, e così via, conduce la vita religiosa, e colui che non rinuncia al mondo, ecc. non conduce la vita religiosa”, non siete d’accordo. Ancora una volta, lei sostiene che solo dove sorgono i Buddha c’è vita religiosa e che dove non sorgono non c’è? La sua risposta è incerta. Ora, l’Eccelso è nato a Lumbinī, è diventato pienamente illuminato ai piedi dell’Albero della Bodhi e ha fatto girare la Ruota del Dhamma a Benares. La vita religiosa deve essere osservata solo in questi luoghi e non altrove? Faccio una domanda simile per quanto riguarda il Paese di Mezzo, dove ci sono stati eventi di risvegliati, e per quanto riguarda il Magadhese, dove c’è stato l’avvento di una coppia di discepoli principali.

Sammitiya: Lei afferma che la vita religiosa è praticata tra i deva, ma nega che sia universalmente praticata, per esempio tra i deva della “sfera inconscia”.

Theravāda: Questo è solo ciò che dovremmo affermare e negare per l’umanità, per esempio che mentre la vita religiosa è praticata tra gli uomini, non è praticata tra i barbari non istruiti dei paesi di confine, dove non c’è rinascita di coloro che diventano religiosi di entrambi i sessi, o di laici e laiche credenti.

Sammitiya: A proposito della vita religiosa nei mondi dei deva, lei dice: “Ci sono sfere in cui esiste, altre sfere in cui non esiste”: entrambe le condizioni sono rappresentate nella sfera dell’inconscio ed entrambe nei mondi dei deva coscienti? Se no, allora dove esiste e dove non esiste?

Theravāda: La vita religiosa esiste solo tra i deva coscienti. Ammettete che la vita religiosa è praticata tra gli uomini.

Sammitiya: Solo in alcuni luoghi, non in altri.

Theravāda: Intende dire che entrambi i tipi di luoghi sono rappresentati nei paesi periferici di confine, tra i barbari non addestrati, dove non nasce nessuno che diventi religioso o pio laico e laica? Se no, come si può affermare che la vita religiosa è praticata? Dove si pratica?

Sammitiya: Nel Paese di Mezzo, non nei paesi periferici di confine. Ma non è stato detto dall’Eccelso che: “In tre aspetti, monaci, la gente dell’India supera sia quella del Nord Kuru sia quella dei deva dei Trentatré: nel coraggio, nella consapevolezza e nella vita religiosa”? Il Sutta è così? Non dimostra forse che non c’è vita religiosa tra i deva?

Theravāda: L’Eccelso non ha forse detto a Sāvatthī: “Qui si pratica la vita religiosa”? E questo dimostra che era praticata solo a Sāvatthī e non altrove? Ancora, l’anagami, per il quale le cinque “catene inferiori” sono state eliminate, ma non ancora le cinque “catene superiori”, muore “qui”, rinasce “là” – dove nasce per lui il frutto delle sue azioni? “Là”, e solo là, dite voi. Come potete allora negare la vita religiosa tra i deva? Perché quando uno rinasce “là”, è là che “si libera del fardello”, là che comprende la natura della sofferenza, là che abbandona le corruzioni, là che realizza la cessazione della sofferenza, là che ha la visione profonda dell’immutabile. Che cosa intendete allora quando dite: “Non c’è vita religiosa tra i deva”?

Sammitiya: Perché è qui che ha praticato quel Sentiero di cui realizza il frutto.

Theravāda: Se ammettete che l’anagami realizza il frutto del sentiero praticato qui, dovete anche ammettere che il sotapanna realizza il frutto del sentiero praticato qui. Allo stesso modo, dovete ammettere che il sakadagami e la persona che completa l’esistenza qui, realizzano qui il frutto ottenuto con la pratica del sentiero lì.
Inoltre, poiché ammettete che il sotapanna realizzi qui i frutti ottenuti con la pratica del sentiero, dovete ammettere che l’anagami possa, allo stesso modo, realizzare lì i frutti ottenuti con la pratica del sentiero. Ancora una volta, proprio come ammettete che il sakadagami e la persona che completa l’esistenza possono, tramite la pratica del sentiero qui, realizzare dei frutti qui, allo stesso modo dovete ammettere che l’anagami può realizzare dei frutti là, ottenuti tramite la pratica del sentiero là.
Se dichiarate che una persona che, “lasciando questa vita, raggiunge il nibbana nelle Pure Dimore”, pratica il sentiero senza abbandonare le corruzioni, dovete ammetterlo non di meno nel caso di una persona che ha lavorato per la realizzazione del frutto del sotapanna, o del frutto del sakadagami, o del frutto dello stato di arahant.
Inoltre, se dichiarate che una persona che ha praticato per la realizzazione del frutto del sotapanna, o per il frutto del sakadagami, o per quello dello stato di arahant, pratica il sentiero e abbandona le corruzioni simultaneamente, dovete ammettere altrettanto nel suo caso che, lasciando questa vita, raggiunge il nibbana nelle Pure Dimore.
Con la posizione assunta in merito alla tesi, ammettete che una persona che non rinasce mai, quando rinasce, ha “fatto ciò che doveva essere fatto”, è nella condizione di aver praticato. Ma questo equivale a dichiarare che l’arahant rinasce – che l’arahant trapassa da una vita all’altra, da una destinazione all’altra, da un ciclo all’altro di vita rinnovata, da una rinascita all’altra – cosa che ovviamente voi negate.
Non potete, inoltre, ammettere queste qualifiche nell’anagami e negargli quelle di “colui che si è liberato del fardello”, quando vi rinasce; perché allora dovete ammettere che lì praticherà di nuovo il sentiero per liberarsi del fardello.
Allo stesso modo, qualsiasi altra conquista nella vita religiosa che trattenete all’anagami al momento della sua rinascita finale: la comprensione della sofferenza, l’abbandono delle corruzioni, la realizzazione della cessazione della sofferenza, la visione profonda dell’immutabile – lo costringete, per ottenerla, a “praticare il sentiero” tra i deva come deva. Altrimenti dichiarate implicitamente che egli completa l’esistenza senza conquistare l’uno o l’altro.

Sammitiya: Come un cervo ferito da una freccia, pur correndo lontano, muore per la ferita subita, così l’anagami, attraverso il sentiero qui praticato, ne realizza il frutto.

Theravāda: Il cervo ferito da una freccia, anche se corre lontano, muore per la ferita con la freccia dentro di sé. Ma l’anagami, quando con il sentiero qui praticato ne realizza il frutto, porta forse la freccia con sé?

Sammitiya: No, questo non si può dire veramente.

The Points of Controversy, traduzione in inglese dalla versione pâli del Kathāvatthu dell’Abhidhamma di Shwe Zan Aung e C.A.F. Rhys Davids. Pubblicato per la prima volta dalla Pali Text Society, 1915.Tradotto in italiano da Enzo Alfano.

TestoKathavatthu