Questo ho sentito. Una volta il Sublime girava per la terra di Kosalo insieme ad una grande comitiva di monaci. Proprio allora viveva a Paccalakappam [così nel testo siamese] una brâhmana di nome Dhanañjanî, assai devota allo Svegliato, alla Dottrina ed all’Ordine dei mendicanti, che fermandosi ripeté per tre volte questo saluto: “Venerazione al Sublime, al santo, perfetto Svegliato!”
In quel tempo viveva a Paccalakappam anche il giovane brâhmano Sangâravo, un ultraconoscitore dei tre Veda nelle parole, nei riti, nella scienza dei suoni e delle forme, nelle quintuple leggende: un commentatore ed esegeta fornito, agli occhi del mondo, di tutti gli attributi di un grande uomo. Egli sentì le parole della brâhmana e le disse: “Degenerata, spregevole è questa brâhmana che tra dotti brâhmani canta le lodi di quell’asceta zuccone!”
“Tu però, mio bel signore, non conosci la virtù e la sapienza del Sublime; se tu la conoscessi, non ti verrebbe in mente di vilipenderlo ed ingiuriarlo.”
“Allora, signora, se qualche volta il Sublime verrà a Paccalakappam, vorrai avvisarmi.”
“Sì, bel signore.”: replicò la brâhmana.
Il Sublime, passando di luogo in luogo per la terra di Kosalo, giunse a Paccalakappam e si sistemò nel bosco di manghi del brâhmano Todeyyo. Quando la brâhmana Dhanañjanî lo seppe, si recò dal giovane brâhmano Sangâravo e gli annunziò: “Ecco, mio bel signore, il Sublime è giunto a Paccalakappam e dimora nel bosco di manghi del brâhmano Todeyyo: fai, mio bel signore, come meglio ti pare.”
“Bene, signora!”: rispose il giovane e si recò dove il Sublime dimorava. Scambiò i convenevoli d’uso, si sedette accanto e disse: “Vi sono, Gotamo alcuni asceti e brâhmani che professano d’aver raggiunto la somma perfezione della conoscenza del mondo, l’essenza della santa vita. A quali di questi asceti appartiene il signore Gotamo?”
“Tra quelli che professano tali cose io però, Bhâradvâjo, faccio distinzione. Vi sono alcuni asceti e brâhmani tradizionalisti, che per tradizione professano d’aver raggiunto la somma perfezione della conoscenza del mondo, l’essenza della santa vita: tali sono i brâhmani dei tre Veda. Vi sono poi alcuni asceti e brâhmani che proclamano le stesse cose solo per proprio credere: tali sono i ragionatori e i discettatori. Vi sono alcuni asceti e brâhmani che, in cose mai prima sentite riconoscendo da se stessi la verità, professano d’aver raggiunto la somma perfezione della conoscenza del mondo, l’essenza della santa vita: a questi appartengo io. Ecco, io, prima del pieno risveglio, quale imperfetto svegliato, al risveglio anelante, pensavo così: ‘Carcere è la casa, letamaio: aria aperta la rinunzia! Ed allora, dopo qualche tempo, ancor giovane, splendido di capelli neri, nel fiore della virilità, contro il desiderio dei genitori piangenti, radendo capelli e barba, indossando l’abito fulvo, rinunziai alla casa per la mendicità. Così, divenuto pellegrino, cercando il vero bene, investigando per l’incomparabile, altissimo sentiero di pace, mi recai da Alâro Kâlâmo e gli dissi: ‘Desidero, amico Kâlâmo, vivere la vita religiosa in questa dottrina e disciplina’. A queste parole, Bhâradvâjo, egli mi rispose: ‘Resta, onorevole! Questa dottrina è tale che un uomo intelligente, anche in breve tempo, avendola compresa ed avendo manifestata la propria maestria, ne resta in possesso’. Ed io, in breve tempo, appresi questa dottrina. Ora io potevo parlare di quanto avevo appreso, la parola della scienza e quella degli anziani; ed io e gli altri riconoscevamo che io sapevo e discernevo. Allora pensai: ‘Alâro Kâlâmo però non espone fedelmente l’intera dottrina in modo che io, avendola compresa ed applicata con maestria, ne resti in possesso. Eppure certamente egli ne possiede la conoscenza e il discernimento.’ Allora mi recai da Alâro Kâlâmo e gli chiesi: ‘Fino a che punto esponi questa dottrina in modo che, avendola capita ed applicata con maestria, ne restiamo in possesso?’ Così interpellato, egli espose [l’insegnamento de] il regno della non esistenza. Allora pensai: in lui non c’è proprio fede, non c’è forza, non c’è riflessione, non raccoglimento, non sapienza; in me vi sono tutte queste cose: se ora mi sforzassi di impossessarmi di questa dottrina? Ed io, in breve tempo, ne entrai in possesso. Quindi mi recai di nuovo da Alâro Kâlâmo e gli dissi che ero anch’io in possesso della dottrina.” E lui: “Fortunati siamo noi, amico, veramente fortunati poiché riconosciamo l’onorevole quale vero asceta! Tu esponi la dottrina proprio come faccio io; te ne sei impossessato, la conosci come la conosco io. Orsù dunque, amico, dirigiamo entrambi insieme questa scuola!”
“Così dunque, Bhâradvâjo, il mio maestro mise me, suo discepolo, pari a lui, e mi onorò di alto onore. Allora mi venne il pensiero: ‘Questa dottrina non conduce al rivolgimento, non alla cessazione, non alla consumazione, non alla conoscenza, non al risveglio, non all’estinzione, ma solo all’apparizione nel regno della non esistenza.’ Quindi io non apprezzando questa dottrina, non appagato da essa mi allontanai. Così, cercando il vero bene, investigando l’incomparabile, altissimo sentiero di pace, mi recai da Uddako, il figlio di Râmo, e gli dissi: ‘Desidero, amico Uddako Râmaputto, vivere la vita religiosa in questa dottrina e disciplina’. A queste parole, Bhâradvâjo, egli mi rispose: ‘Resta, onorevole! Questa dottrina è tale che un uomo intelligente, anche in breve tempo, avendola compresa ed avendo manifestata la propria maestria, ne resta in possesso’. Ed io, in breve tempo, appresi questa dottrina. Ora io potevo parlare di quanto avevo appreso, ed io e gli altri riconoscevamo che io sapevo e discernevo. Allora pensai: ‘Uddako Râmaputto però non espone fedelmente l’intera dottrina in modo che io, avendola compresa ed applicata con maestria, ne resti in possesso. Eppure certamente egli ne possiede la conoscenza e il discernimento.’ Allora mi recai da Uddako Râmaputto e gli chiesi: ‘Fino a che punto esponi questa dottrina in modo che, avendola capita ed applicata con maestria, ne restiamo in possesso?’ Così interpellato, egli espose [l’insegnamento de] il regno della non coscienza né incoscienza. Allora pensai: in lui non c’è proprio fede, non c’è forza, non c’è riflessione, non raccoglimento, non sapienza; in me vi sono tutte queste cose: se ora mi sforzassi di impossessarmi di questa dottrina? Ed io, in breve tempo, ne entrai in possesso. Quindi mi recai di nuovo da Uddako Râmaputto e gli dissi che ero anch’io in possesso della dottrina.”
E lui: “Fortunati siamo noi, amico, veramente fortunati poiché riconosciamo l’onorevole quale vero asceta! Tu esponi la dottrina proprio come fa Râmo; te ne sei impossessato, la conosci come la conosce Râmo. Orsù dunque, amico, dirigi tu questa scuola!”
“Così dunque, Bhâradvâjo, Uddako Râmaputto, mio condiscepolo, mise me al posto di maestro e mi onorò di alto onore. Allora mi venne il pensiero: ‘Questa dottrina conduce non al rivolgimento, non alla cessazione, non alla consumazione, non alla conoscenza, non al risveglio, non all’estinzione, ma solo all’apparizione nel regno della non coscienza né incoscienza.’ Quindi io non apprezzando questa dottrina, non appagato da essa mi allontanai. Così, cercando il vero bene, investigando per l’incomparabile, altissimo sentiero di pace, passai per la terra di Magadhâ di luogo in luogo e giunsi presso il borgo di Uruvelâ. Là vidi un delizioso pezzo di terra, un sereno sfondo di selva, un limpido fiume fluente, atto al bagno, letificante, e tutt’intorno prati e campi. Pensai: ‘Delizioso davvero è questo pezzo di terra, in esso vi è ciò che basta davvero per l’ascesi ad un nobile figlio che in essa vuole esercitarsi!’ Ed io mi fermai là. E mi vennero tre paragoni naturali mai sentiti prima. Se vi fosse un’umida scheggia di legno, imbevuta d’acqua, e giungesse un uomo con una bacchetta da girare per fare fuoco, e dicesse: ‘Accenderò il fuoco, produrrò luce!’ Che ne pensi, Bhâradvâjo, potrebbe egli farlo?”
“No di certo, Gotamo!”
“Perché?”
“Quella scheggia di legno è così bagnata che quell’uomo invano si sottoporrebbe a fatica e pena.”
“Lo stesso è di quegli asceti o sacerdoti i quali non si sono distaccati dal corpo, non dai desideri, e che, non avendo dalla loro interiorità estratto né espulso ciò che nei loro desideri è voglia, infusione, languore, sete, febbre di desiderio, se poi provano sensazioni dolorose, cocenti, pungenti, sorgenti in loro, sono incapaci di conoscenza, di chiaroveggenza, dell’incomparabile perfetto risveglio; e se anche non provano tali sensazioni, anche allora sono incapaci di conoscenza, di chiaroveggenza, dell’incomparabile perfetto risveglio. Questo è il primo paragone che mi venne. Poi mi venne questo secondo paragone. Così com’è impossibile accendere il fuoco con una scheggia di legno imbevuta d’acqua, così pure è di quegli asceti o sacerdoti i quali si sono distaccati dal corpo e dai desideri, ma che, non avendo dalla loro interiorità estratto né espulso ciò che nei loro desideri è voglia, infusione, languore, sete, febbre di desiderio, se poi provano sensazioni dolorose, cocenti, pungenti, sorgenti in essi, sono incapaci di conoscenza, di chiaroveggenza, dell’incomparabile perfetto risveglio; e se anche non provano tali sensazioni, anche allora sono incapaci di conoscenza, di chiaroveggenza, dell’incomparabile perfetto risveglio. Poi mi venne questo terzo paragone. Se vi fosse una scheggia di legno, secca, asciutta, tenuta lontano dall’acqua, e giungesse un uomo con una bacchetta per fare fuoco, e dicesse: ‘Accenderò il fuoco, produrrò luce!’ Che ne pensi, Bhâradvâjo, potrebbe egli farlo?”
“Sì, Gotamo!”
“Perché?”
“Perché quella scheggia di legno è così secca, asciutta, tenuta lontano dall’acqua che sarebbe adatta.”
“Così è di quegli asceti o sacerdoti i quali si sono distaccati dal corpo e dai desideri, e che, avendo dalla loro interiorità estratto ed espulso ciò che nei loro desideri è voglia, infusione, languore, sete, febbre di desiderio, se poi provano sensazioni dolorose, cocenti, pungenti, sorgenti in essi, sono capaci di conoscenza, di chiaroveggenza, dell’incomparabile perfetto risveglio; e se anche non provano tali sensazioni, anche allora sono capaci di conoscenza, di chiaroveggenza, dell’incomparabile perfetto risveglio. Quindi mi venne il pensiero: ‘E se ora io, con i denti stretti e la lingua aderente al palato costringessi, comprimessi, abbattessi l’animo con la volontà?’ Ed io così feci, e mentre lo facevo, dalle ascelle colava il sudore. Così come un uomo forte, afferrando un uomo più debole per il capo o per le spalle, lo abbatte, così io abbattevo l’animo con la volontà. Ferma però era la mia forza, inflessibile, presente il sapere, irremovibile; ma infermo ancora era il mio corpo, non calmato da questo esercizio doloroso a cui mi sottoponevo. Tale sensazione dolorosa che mi era sorta, Bhâradvâjo, non vincolava però l’animo mio.
Continuando ad immergermi sempre più in contemplazione senza respiro, trattenni le inspirazioni ed espirazioni dalla bocca e dal naso. E si sentiva nei canali uditivi uno straordinario suono di soffi fuoriuscenti, come il suono straordinario che esce dal mantice soffiante d’una fucina. Ferma però era la mia forza, inflessibile, presente il sapere, irremovibile; ma infermo ancora era il mio corpo, non calmato da questo esercizio doloroso a cui mi sottoponevo. Tale sensazione dolorosa che mi era sorta, Bhâradvâjo, non vincolava però l’animo mio.
Continuando ad immergermi sempre più in contemplazione senza respiro, trattenni le inspirazioni ed espirazioni dalla bocca, dal naso e dalle orecchie, e straordinarie pulsazioni mi battevano la volta del capo, come se un uomo forte con l’acuta punta d’un pugnale battesse la volta del capo. Ma l’animo mio non cedeva.
Continuando ad immergermi sempre più in contemplazione senza respiro, trattenni le inspirazioni ed espirazioni dalla bocca, dal naso e dalle orecchie, e provavo nella testa straordinarie sensazioni, come se un uomo forte con un pezzo di solida cinghia mi stringesse la testa. Ma l’animo mio non cedeva.
Continuando ad immergermi sempre più in contemplazione senza respiro, trattenni le inspirazioni ed espirazioni dalla bocca, dal naso e dalle orecchie, e straordinarie palpitazioni mi lancinavano il ventre, come se un abile macellaio, o un suo garzone, mi tagliuzzasse il ventre con un coltello affilato. Ma l’animo mio non cedeva.
Continuando ad immergermi sempre più in contemplazione senza respiro, provai nel corpo uno straordinario bruciore, come se due uomini forti, afferrando per le braccia un uomo più debole, lo rotolassero, lo abbrustolissero su un braciere di carboni ardenti. Ma l’animo mio non cedeva.
Allora, Bhâradvâjo, alcune divinità, vedendomi, dissero: ‘Morto è l’asceta Gotamo!’ Ma altre divinità dissero: ‘Non è morto, ma sta morendo!’ Ed altre ancora: ‘Non è morto l’asceta Gotamo e non sta morendo; santo è l’asceta Gotamo: tale appunto è lo stato di santo’.
Allora pensai: ‘Se ora mi astenessi interamente dal cibo?’ Ma le divinità, manifestandosi, dissero: ‘Non lo fare! Però se tu, degno, ti asterrai totalmente dal cibo, noi ti infonderemo per i pori celeste rugiada, e di questo ti sosterrai’. Allora, pensando che ciò sarebbe stata da parte mia una finzione, allontanai quelle divinità. E decisi di prendere poco cibo, quanto ce ne sta nel cavo della mano, zuppa di fagioli, di lenticchie, di piselli o di altri legumi. Così facendo il mio corpo divenne straordinariamente magro. Braccia e gambe divennero come canne nodose disseccate, il sedere divenne come la zampa di un cammello, la spina dorsale come un rosario con le vertebre sporgenti; come da un vecchio tetto fuoriescono le travi, così facevano le mie costole; come in un profondo pozzo si scorgono appena le luci del fondo, così nelle mie orbite infossate si scorgevano appena le luci degli occhi; come una zucca selvatica, raccolta fresca, si fa poi vuota e grinzosa, così era la pelle del mio capo. Quando volevo toccare la pelle del ventre, sentivo la spina dorsale, e viceversa, tanto aderente alla spina dorsale mi si era fatta la pelle del ventre. E quando volevo vuotare feci ed urina, cadevo a terra. Allorché, per stimolare il corpo, strofinavo con la mano le membra, i peli, putridi alle radici, se ne cadevano.
Allora alcuni uomini, vedendomi, dissero: ‘Livido è l’asceta Gotamo’. Ed altri: ‘Non livido, è scuro l’asceta Gotamo’. Ed altri ancora: ‘Grigio di pelle è l’asceta Gotamo’. Così mi si era alterato il lucido e puro colore della pelle per la scarsa alimentazione. E pensai: ‘Questo è il massimo di ciò che asceti e sacerdoti hanno provato in passato o proveranno in avvenire; più oltre non si va. Eppure, nonostante tutto ciò, non raggiungo la sovrumana, santa sufficienza della chiarezza del sapere! Vi è forse un’altra via per il risveglio?’ E mi venne in mente: ‘Mi ricordo però una volta, nella proprietà del mio potente padre, sedendo alla fresca ombra d’un albero di melarosa, ben lungi da brame e da cose non salutari, d’aver raggiunto, in senziente, pensante, nata da pace beata serenità, la prima contemplazione. Che sia questa la via del risveglio? E mi venne la consapevolezza conforme al sapere: ‘Questa è la via del risveglio! Temo forse questa felicità di là dal bene e dal male? No che non la temo. Ma non si può certo raggiungere facilmente quella felicità con un corpo così spossato: e se ora prendessi alimento solido, riso bollito con giuncata?’ E così feci.
In quel tempo però, Bhâradvâjo, erano intorno a me cinque monaci: ‘Quando l’asceta Gotamo avrà conquistato la verità, ce la parteciperà’. Ma quando videro che prendevo alimento solido, essi, disgustati di me, se ne andarono: ‘Esagerato diviene l’asceta Gotamo, infedele all’ascesi, proclive all’abbondanza’. Ma io, acquistando forze, ben lungi da brame e da cose non salutari, in senziente, pensante, nata da pace beata serenità, raggiunsi la prima contemplazione. Tale sensazione di piacere in me sorta non vincolava però l’animo mio.
Dopo compimento del sentire e pensare, raggiunsi l’interna calma serena, l’unità dell’animo, la non senziente, non pensante, nata dal raccoglimento
beata serenità, la seconda contemplazione. Tale sensazione di piacere in me sorta non vincolava però l’animo mio.
In serena pace io restavo equanime, savio, chiaro cosciente, provavo nel corpo quella felicità di cui i santi dicono: ‘L’equanime savio vive felice’.
Così raggiunsi la terza contemplazione. Tale sensazione di piacere in me sorta non vincolava però l’animo mio.
Col distacco dal piacere e dal dolore, con la scomparsa della letizia e della tristezza anteriore, io raggiunsi la non triste, non lieta, equanime,
savia, perfetta purezza, la quarta contemplazione. Tale sensazione di piacere in me sorta non vincolava però l’animo mio.
Con tale animo, saldo, puro, terso, incorruttibile, io rivolsi l’animo alla memore cognizione di anteriori forme di esistenza. Mi ricordai di molte diverse anteriori forme di esistenza, fino a centomila vite; poi delle epoche durante diverse formazioni e trasformazioni di mondi: ‘Là ero io con tale nome, tale famiglia, tale stato, tale ufficio, tale piacere e dolore provando, così uscendo dalla vita; di là trapassato, entrai altrove di nuovo in esistenza, e così via; di là trapassato, eccomi qui rinato’. Così mi ricordai di molte diverse anteriori forme di esistenza, con le loro caratteristiche, le loro circostanze distintive. Questa conoscenza, Bhâradvâjo, era stata da me, nella prima veglia della notte, raggiunta, dissipata l’ignoranza, conquistata la scienza, conquistata la luce, mentre io là con serio intendimento, rimanevo solerte, instancabile. Tale sensazione di piacere in me sorta non vincolava però l’animo mio.
Con tale animo, saldo, puro, terso, incorruttibile, io rivolsi l’animo alla cognizione dello sparire ed apparire degli esseri. Con l’occhio celeste, rischiarato, sovrumano, vidi gli esseri sparire e riapparire, volgari e nobili, belli e brutti, felici ed infelici, riconoscendo come gli esseri sempre secondo le azioni riappaiono: ‘Questi signori esseri invero si conducono male in opere, in parole, in pensieri; biasimano ciò che è santo, stimano e fanno ciò che è perverso: con la dissoluzione del corpo, dopo la morte, essi vanno giù in perdizione, all’inferno. Quei signori esseri invece si conducono bene in opere, in parole, in pensieri; non biasimano ciò che è santo, stimano ciò che è retto: con la dissoluzione del corpo, dopo la morte, essi ascendono per buona via, in mondo celeste’. Così con l’occhio celeste, rischiarato, sovrumano riconobbi come gli esseri sempre secondo le azioni riappaiono. Questa conoscenza, Bhâradvâjo, era stata da me, nella veglia di mezzo della notte, raggiunta, dissipata l’ignoranza, conquistata la scienza, conquistata la luce, mentre io là con serio intendimento, rimanevo solerte, instancabile.”
Dopo queste parole il giovane brâhmano Sangâravo disse al Sublime: “Fermo davvero fu lo sforzo del signore Gotamo: come ciò è proprio di un santo, perfetto Svegliato! Ma, Gotamo, vi sono dèi?”
“Evidentemente, Bhâradvâjo, si sa se ve ne sono.”
“Come, Gotamo, interrogato se vi sono dèi, tu dici: ‘Evidentemente, Bhâradvâjo, si sa se ve ne sono.’ Allora, Gotamo, si tratta di vana menzogna?”
“Chi, Bhâradvâjo, essendo interrogato se vi sono dèi, dicesse: ‘Vi sono dèi’; e chi dicesse: ‘Evidentemente lo si sa’: in questo caso un uomo intelligente trarrebbe la conclusione, se vi sono dèi.”
“Perché allora il signore Gotamo non mi ha risposto subito?”
“In alto si è d’accordo, Bhâradvâjo, se nel mondo vi sono dèi.”
Dopo queste parole il giovane brâhmano Sangâravo disse: “Benissimo, Gotamo, benissimo! Quale seguace il signore Gotamo mi accolga da oggi per la vita fedele.”.
Riscrittura a partire dall’italiano di De Lorenzo, da Pier Antonio Morniroli ed Enrico Federici.
Per distribuzione gratuita esclusivamente.
Testo: Majjhima Nikaya