Questo sentito. Una volta il Sublime soggiornava presso Sâvatthî, nella Selva del Vincitore, nel giardino di Anâthapindiko. E il Sublime, pronto da tempo, prese mantello e ciotola e s’avviò alla città per l’elemosina. Molti monaci si recarono dall’onorevole Ânando e gli dissero:
“È da lungo tempo che non abbiamo sentito dal Sublime un istruttivo discorso: sarebbe bene lo potessimo fare.”
“Allora, onorevoli, recatevi all’eremo del brâhmano Rammako; forse potrete sentire dal Sublime un istruttivo discorso.”
“Lo faremo!” replicarono i monaci.
Quando il Sublime fu passato di casa in casa e fu tornato dal giro di elemosina, dopo il pasto si rivolse ad Ânando: “Vieni, andiamo al Bosco ad oriente, sulla Terrazza della madre di Migâro, e rimaniamo là fino a sera.”
“Bene, Signore!” replicò l’onorevole Ânando.
Andarono là e quando il Sublime ebbe finito la meditazione, disse ad Ânando:
“Vieni, andiamo al Bagno antico a rinfrescare le membra.”
“Bene, Signore!” replicò l’onorevole Ânando. E andarono là. Dopo che il Sublime ebbe fatto il bagno e si fu asciugato, indossò uno dei suoi tre capi della veste. Allora l’onorevole Ânando disse: “L’eremo del brâhmano Rammako, che si trova in una bella e serena campagna, non è lontano da qui. Sarebbe bene se il Sublime si volesse recare là, mosso da compassione.”
Il Sublime assentì alla preghiera tacendo, e si recò all’eremo del brâhmano Rammako.
In quel frattempo s’erano radunati là molti monaci in istruttivo colloquio, e il Sublime si fermò alla porta dell’eremo in attesa che il colloquio finisse. Quando ciò avvenne, il Sublime tossì e picchiò col battente, e i monaci gli aprirono la porta. Il Sublime entrò, si sedette sul sedile che gli fu offerto, e si rivolse ai monaci: “Di cosa stavate qui parlando, monaci, e perché vi siete interrotti?”
“Ci siamo interrotti perché ci siamo accorti della venuta del Sublime.”
“Bene, monaci, ciò vi si addice, poiché come nobili figli mossi da fiducia avete lasciato la casa per l’eremo, è bene che vi siate radunati ad istruttivo colloquio. Quando vi trovate insieme è conveniente che pratichiate un istruttivo colloquio o un santo silenzio. Monaci, vi sono due fini: il fine santo e quello che non lo è. E qual è il fine non santo? Ecco, uno che sia soggetto alla nascita, cerca ciò che è soggetto alla nascita; soggetto ad invecchiare, cerca ciò che è soggetto ad invecchiare; soggetto alla malattia, cerca ciò che è soggetto alla malattia, e lo stesso accade per colui che è soggetto alla morte, al dolore, alla sozzura. Ma cosa dite essere soggetto alla nascita? Mogli e figli lo sono, ed anche servi e serve, pecore e capre, porci e polli, elefanti e buoi, stalloni e giumente, oro e argento. Ed ecco che, essendo soggetti alla nascita, si è adescati, accecati, attirati da ciò che è soggetto alla nascita. Ma tutte queste cose sono soggette alla vecchiaia, alla malattia, alla morte, al dolore, alla sozzura. Ed essendo soggetti a tutto ciò se ne è adescati, accecati, attirati e li si cerca. Questo, monaci, è il fine non santo!
Ma qual è il fine santo? Uno che sia soggetto alla nascita, osservando la miseria di questa legge di natura, cerca l’incomparabile sicurezza del senza nascita, l’estinzione: soggetto alla vecchiaia, alla malattia, alla morte, al dolore, alla sozzura, osservando la miseria di tutte quelle cose, cerca l’incomparabile sicurezza priva di tutto ciò, l’estinzione.”
“Anche io, una volta, prima del pieno risveglio, come imperfetto Svegliato, al risveglio solo anelante, essendo io stesso soggetto alla nascita, alla vecchiaia, alla malattia, alla morte, al dolore, alla sozzura, ho cercato ciò che era soggetto a tutte quelle cose. Allora mi venne il pensiero: ‘Cosa sto cercando? E se io ora, osservando la miseria di questa legge di natura, cercassi l’incomparabile sicurezza del senza nascita, del senza vecchiaia, del senza malattia, del senza morte, del senza dolore, del senza sozzura: l’estinzione?
Ed io, monaci, dopo qualche tempo, ancora in fresco fiore, splendente di capelli neri, nel godimento della felice giovinezza, nella prima età virile, contro il desiderio dei miei genitori piangenti e gementi, rasi capelli e barba, vestito dell’abito fulvo, mi allontanai dalla casa per l’eremo. Così, divenuto pellegrino, cercando il vero bene, investigando per l’incomparabile altissimo sentiero di pace, io mi recai da Âlaro Kâlâmo e gli dissi: ‘ Io vorrei, fratello, condurre vita ascetica in questa dottrina ed ordine’. La risposta fu: ‘Resta, onorevole! Questa dottrina è tale che un uomo intelligente, anche in breve tempo, può comprenderla e, palesando la propria maestria, può raggiungerne il possesso’. Ed io lo feci, imparai tutto ciò che labbra e suoni possono trasmettere: la parola della scienza e la parola dei discepoli anziani. Ma mi venne il pensiero: ‘Âlaro Kâlâmo non insegna l’intera dottrina così come la conosce’. Allora andai da lui e dissi: ‘Fino a che punto, fratello, tu dichiari che noi abbiamo compreso questa dottrina e l’abbiamo fatta nostra?’ Allora egli espose il regno della non esistenza. M io pensai: ‘Âlaro Kâlâmo non ha fiducia, non ha costanza, non ha sapere, non ha raccoglimento, non ha sapienza, ma io sì! E se ora io mi appropriassi di questa dottrina fino a padroneggiarla?’. E in breve tempo, monaci, io avevo compreso questa dottrina, ne avevo raggiunto il possesso. Allora andai di nuovo da Âlaro Kâlâmo e gli chiesi: ‘È stata da me compresa e realizzata questa tua dottrina?’ E lui rispose: ‘Così come io annunzio la dottrina, così tu l’hai compresa e realizzata. Vieni dunque, fratello, sei divenuto pari a me e possiamo dirigere insieme questa schiera di discepoli’. Così, monaci, Âlaro Kâlâmo dichiarò me, suo discepolo, come suo pari e mi onorò con alto riconoscimento.
Ma a me venne questo pensiero: ‘Questa dottrina non conduce al distacco, al rivolgimento, alla dissoluzione, all’annullamento, alla contemplazione, al pieno risveglio, all’estinzione, ma solamente all’apparizione nella sfera della non esistenza’. E io trovai questa dottrina insoddisfacente, e, inappagato da essa, mi allontanai.
Alla ricerca del vero bene, investigando per l’incomparabile altissimo sentiero di pace, io mi recai da Uddako, il figlio di Râmo, e gli dissi:
‘Vorrei, fratello, praticare la vita ascetica della tua dottrina e nel tuo ordine.’ E anche lui mi rispose: ‘Resta, onorevole! Questa dottrina è tale che un uomo intelligente, anche in breve tempo, può comprenderla e, palesando la propria maestria, può raggiungerne il possesso’. E io compresi in breve tempo questa dottrina. E, com’era accaduto prima, essendomi accorto che Uddako Râmaputto, non aveva comunicato l’intera dottrina, mi recai da lui, e, insistendo, egli mi espose il limite di possibile percezione. Mettendo in atto le mie qualità, in breve tempo compresi e divenni padrone di quest’altra dottrina. Mi recai da Uddako e dimostrai la mia padronanza della sua dottrina. E, ancora una volta, egli mi dichiarò suo pari, mi rese onore e mi investì del grado di maestro della schiera dei suoi discepoli. Ma nuovamente pensai: ‘Questa dottrina non conduce al distacco, al rivolgimento, alla dissoluzione, all’annullamento, alla contemplazione, al pieno risveglio, all’estinzione, ma solamente all’apparizione nella sfera del limite di possibile percezione’. E io trovai questa dottrina insoddisfacente, e, inappagato da essa, mi allontanai.
Cercando il vero bene, investigando per l’incomparabile altissimo sentiero di pace, passai di luogo in luogo per la terra di Magadhâ e giunsi nelle vicinanze del borgo di Uruvelâ. Là vidi un ben esposto pezzo di terra, un sereno fondo boschivo, un limpido fiume scorrente, adatto al bagno, rallegrante, e tutt’intorno prati e campi. Pensai che ciò bastava per l’ascesi di un nobile figlio, e mi sedetti esclamando: ‘Ciò basta all’ascesi!’.
E io, monaci, che soggetto alla nascita, osservando la miseria di questa legge di natura, cercavo l’incomparabile sicurezza del senza nascita, l’estinzione, trovai proprio quello che cercavo. E ora la chiara certezza mi si schiuse:
‘Per sempre sono redento,
L’ultima vita è questa,
E non v’è più ritorno.’
E pensai: ‘Trovato ho io ora questa verità, profonda, difficile da scoprire, difficile da percepire, tranquilla, preziosa, intima, inescogitabile, accessibile ai savi. Ma la gente cerca il piacere, ama il piacere, pregia il piacere. Alla gente una cosa come il rapporto di causa ed effetto, l’origine da cause, sarà appena intelligibile; ed anche quest’altra cosa essa a stento intenderà: lo svanire d’ogni distinzione, il distacco da ogni attaccamento, l’esaurirsi della sete di vivere, il rivolgimento, la dissoluzione, l’estinzione. Se io quindi espongo la verità e gli altri non mi intendono, me ne verrà certo amarezza e pena’. E spontanei mi si presentarono questi versi, mai prima sentiti:
‘Quel che con intimo sforzo ho trovato
Or palesare è interamente vano:
Agli uomini, che d’odio ardono e brama
Non conviene davvero tale dottrina
Dottrina, che risale la corrente,
Ch’è interna ed è profonda ed è nascosta:
Essa resta invisibile ai bramosi,
Nella più fitta tenebra raccolta.’
Così riflettendo, monaci, inclinava l’animo mio a rinserrarsi, non ad esporre la dottrina. Allora Brahmâ Sahampati 5 si avvide della mia riflessione e si dolse: ‘Si perderà il mondo, miseramente si perderà se l’animo del Compiuto, Santo, perfetto Svegliato, inclina a rinserrarsi, a non esporre la dottrina!’ Allora Brahmâ Sahampati disparve dal mondo di Brahmâ con la stessa facilità con cui un uomo forte stende o piega il braccio, ed apparve innanzi a me. Scopertasi una spalla, congiunse le mani verso di me e disse: ‘Voglia il Sublime esporre la dottrina! Vi sono esseri di più nobile specie: senza aver udito la dottrina essi si perdono; essi comprenderanno la dottrina’. Così parlò, ed aggiunse:
‘Ben false cose furono annunziate
In Magadhâ; dottrine false e torbide,
Da indegni escogitate e proclamate.
Questa porta di vita apri ora tu,
E guidaci alla nuova verità.
Come uno, che in cima stia ad alto monte
E sulla terra guardi tutt’intorno,
Guarda or così, Tutt’Occhio, tu dal sommo
Vertice del vero su questo mondo
Di dolore, tu dal dolor redento!
Guarda, o Savio, pietoso, all’esistenza:
Formarsi e trapassare è il suo tormento.
Tu, o Eroe, vincitor della battaglia,
Volgiti, o duce senza macchia, al mondo!
Annunziagli, o Signore, la dottrina:
Intelligenti pur si troveranno’.
Per sollecitazione di Brahmâ dunque, e per compassione degli esseri io guardai con lo svegliato occhio nel mondo. Così come in un lago con piante di loto, alcuni fiori celesti o bianchi o rosei, hanno origine nell’acqua e in essa si sviluppano, rimangono sotto la sua superficie e succhiano nutrimento dalla profondità; altri si spingono sino alla superficie dell’acqua; e altri ancora emergono sull’acqua: così appunto io vidi, guardando con lo svegliato occhio nel mondo, esseri di specie nobile e di specie volgare, acuti di mente e ottusi di mente, bene dotati e male dotati, svelti a comprendere e tardi a comprendere, e molti che stimano cattiva l’esaltazione di un altro mondo. E allora replicai a Brahmâ con questa strofa:
‘Dell’immortalità s’apron le porte:
Chi ha orecchi per udire venga ed oda.
Repulsione intuendo io non volevo
L’alta dottrina palesar, Brahmâ ‘.
Allora Brahmâ disse: ‘Il Sublime ha consentito ad esporre la dottrina’, mi salutò riverentemente, girò verso destra e sparì di là. E ora mi chiesi: ‘A chi potrei esporre per primo la dottrina; chi potrà comprenderla presto?’ Allora pensai di esporla ad Âlaro Kâlâmo perché era un savio ritirato, profondo, che viveva da lungo tempo nella rinuncia; lui avrebbe presto compreso, ma mi si presentarono delle divinità che mi dissero che Âlaro Kâlâmo era morto da sette giorni. Allora pensai di esporre la dottrina a Uddako Râmaputto, anche lui un savio ritirato, profondo, che viveva da lungo tempo nella rinuncia; lui avrebbe presto compreso, ma altre divinità mi riferirono che Uddako era morto la sera avanti.
Mi tornò il pensiero: ‘A chi altri potrei esporre la dottrina?’ E mi ricordai di quei cinque compagni che mi assistevano quando io mi diedi all’ascesi; perché non esporre la dottrina a loro. Ma dove avrei potuto trovarli? Con l’occhio celeste, rischiarato, sopraterreno, vidi che essi soggiornavano presso Benâres, nel Bosco della Pietra del Vate. Ed allora io, monaci, dopo essermi trattenuto alquanto in Uruvelâ, mi diressi verso Benâres.
Allora mi incontrò Upako, un penitente nudo, sulla via che dall’albero del Risveglio va verso Gayâ, e mi disse: ‘Sereno, fratello, è il tuo volto, chiaro il colore della pelle e puro! Per quale motivo ti sei ritirato dal mondo? Chi è il tuo maestro? Di quale dottrina sei seguace?’ A queste parole io dissi ad Upako queste strofe:
‘Vittorioso io sono, onniveggente,
Per sempre distaccato da ogni cosa,
Rinnegator di tutto, e senza sete,
Da me maestro, chi mai nomerò?
Nessun maestro inver m’ha illuminato,
Esser non avvi alcuno che m’agguagli;
Il mondo coi suoi dei tutti quanti
Alcun non ha che a pari possa starmi.
Poi che il Signore io ben sono del mondo,
L’altissimo Maestro, tal son’io,
Un unico di tutto Compitor,
Chi ogni mania perfettamente ha estinto.
Il vero regno appunto adesso io edifico
E di Benâres vado alla città:
Nel mondo oscuro lieta ha da squillare
Ora la tromba d’immortalità’.
‘Così tu dunque, fratello, credi di essere il Santo, l’illimitato Vincitore?’
‘Eguali a me son certo i Vincitori,
Allor che la mania hanno abbattuto:
Tutto quel ch’è dannoso io ho già vinto,
Ben sono dunque, Upako, un Vincitore’.
A questi versi, il penitente nudo Upako replicò: ‘E quand’anche fosse, fratello! ‘; scosse il capo, e s’allontanò per una via laterale. E io, di luogo in luogo, giunsi là dove si trovavano i miei cinque compagni che, quando mi ebbero visto, si dissero l’un l’altro: ‘Ecco che arriva l’asceta Gotamo, l’abbondante, quello che abbandonata l’ascesi s’è dato all’abbondanza: non salutiamolo, non alziamoci per togliergli mantello e ciotola; indichiamogli solo un posto dove, se vuole, può sedersi’. Ma più m’avvicinavo, meno i cinque compagni poterono persistere nella loro risoluzione: alcuni mi vennero incontro e mi tolsero mantello e ciotola, alcuni mi pregarono di prendere posto, alcuni prepararono un lavacro per i piedi, e tutti mi salutarono chiamandomi fratello. Ma io dissi loro: ‘Ascoltatemi: l’immortalità è trovata. Io guido, io espongo la dottrina. Seguendo la mia guida, voi in breve tempo, ancora in questa vita, imparerete, realizzerete e conquisterete la più alta perfezione della santità: quello scopo per il quale nobili figli lasciano la casa per l’eremo. Non salutatemi col nome di fratello: santo è il Compiuto, il perfetto Svegliato!’. I cinque mi risposero: ‘Perfino con la tua tanto aspra penitenza, fratello Gotamo, con la tua macerazione, con la tua ascesi dolorosa, tu non hai conquistato il sopraterreno, ricco santuario della ricchezza del sapere: com’è che ora che ti sei dato all’abbondanza, che hai abbandonato l’ascesi, tu ora dici di possedere la somma chiarezza del sapere?’. E io replicai: ‘Non è così come dite: santo è il Compiuto, il perfetto Svegliato. Ascoltate, vi ripeto ciò che vi ho detto’. Ma i cinque per la seconda e per la terza volta mi fecero la stessa obiezione. Allora chiesi loro se mi avessero mai sentito prima fare certe affermazioni. Mi risposero di no. Per la quarta volta ripetei il messaggio, e finalmente riuscii a rendere i cinque compagni partecipi di ciò che conoscevo. Prima spiegai come elemosinare: due o tre monaci andavano a elemosinare, e il cibo che avevano ricevuto in elemosina l’avremmo diviso in sei parti e avremmo vissuto di ciò. Poi spiegai la dottrina ed essi, così ammaestrati, così guidati, soggetti essi stessi alla nascita, osservando la miseria di questa legge di natura, cercando l’incomparabile sicurezza senza nascita, senza vecchiaia, senza malattia, senza morte, senza dolore, senza sozzura, trovarono l’incomparabile sicurezza dell’estinzione. La chiara certezza si schiuse ora a loro:
‘Per sempre siam redenti,
L’ultima vita è questa,
E non v’è più ritorno’.
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“Monaci, vi sono cinque facoltà di bramare: le forme penetranti per la vista, i suoni penetranti per l’udito, gli odori penetranti per l’olfatto, i sapori penetranti per il gusto, i contatti penetranti per il tatto, tutti amati, desiderati, appaganti, graditi, corrispondenti alle brame, eccitanti, entrano nella coscienza. Di tutti gli asceti o brâhmani, che adescati, accecati, attirati, si servono delle cinque facoltà di bramare, senza vederne la miseria, senza pensare a scamparvi, si può dire che sono: perduti, rovinati, caduti in balìa del danno. Se una fiera del bosco fosse presa da un laccio, allora essa sarebbe perduta, rovinata, caduta in balìa del cacciatore; se ora arrivasse il cacciatore, essa non potrebbe scappare dove vuole: così sarebbe degli asceti che si servono delle cinque facoltà del bramare senza rendersi conto dei rischi. Se invece essi se ne rendessero conto, sarebbero come una fiera del bosco che non avesse posato la zampa nel laccio del cacciatore. Così come una fiera, vagando in remoti recessi della selva, è sicura andando, fermandosi, sedendo e giacendo perché è lontana dalle trappole del cacciatore: altrettanto un monaco, lungi da brame, lungi da cose non salutari, in sentita, pensante, nata da pace beata serenità, raggiunge il grado della prima contemplazione. Questo è un vero monaco: egli ha accecato la natura, distruttone lo sguardo, è sfuggito alla sua malignità.
E inoltre, dopo il compimento, la cessazione, del sentire e pensare, il monaco raggiunge l’interna calma serena, l’unità dell’animo, la beata serenità nata dal raccoglimento libera dal sentire e pensare, il grado della seconda contemplazione. Questo è un vero monaco: egli ha accecato la natura, distruttone lo sguardo, è sfuggito alla sua malignità.
E inoltre ancora, in serena pace permane il monaco, equanime, savio, chiaro cosciente, e prova nel corpo quella felicità di cui i santi dicono: ‘L’equanime savio vive felice’; così egli raggiunge il grado della terza contemplazione. Questo è un vero monaco: egli ha accecato la natura, distruttone lo sguardo, è sfuggito alla sua malignità.
E inoltre ancora, dopo il rigetto delle gioie e dei dolori, dopo l’annientamento della letizia e della tristezza anteriori, il monaco raggiunge la non triste, non lieta, equanime savia, perfetta purezza, il grado della quarta contemplazione. Questo è un vero monaco: egli ha accecato la natura, distruttone lo sguardo, è sfuggito alla sua malignità.
E inoltre ancora, con il completo superamento delle percezioni di forma, annientamento di quelle riflesse, rigetto di quelle multiple, il monaco, nel pensiero ‘Illimitato è lo spazio’ raggiunge il regno dello spazio illimitato. Questo è un vero monaco: egli ha accecato la natura, distruttone lo sguardo, è sfuggito alla sua malignità.
E inoltre ancora: dopo il superamento dell’illimitata sfera dello spazio, il monaco, nel pensiero ‘Illimitata è la coscienza’ raggiunge il regno della coscienza illimitata. Questo è un vero monaco: egli ha accecato la natura, distruttone lo sguardo, è sfuggito alla sua malignità.
E inoltre ancora, dopo il completo superamento dell’illimitata sfera della coscienza, il monaco, nel pensiero ‘Niente esiste’ raggiunge il regno della non esistenza. Questo è un vero monaco: egli ha accecato la natura, distruttone lo sguardo, è sfuggito alla sua malignità.
E inoltre ancora, dopo il completo superamento della sfera della non esistenza, il monaco raggiunge il limite di possibile percezione. Questo è un vero monaco: egli ha accecato la natura, distruttone lo sguardo, è sfuggito alla sua malignità.
E inoltre ancora, dopo il superamento del limite di possibile percezione, il monaco raggiunge la dissoluzione della percettibilità, e la mania del savioveggente è distrutta. Questo è un vero monaco: egli ha accecato la natura, distruttone lo sguardo, è sfuggito alla sua malignità, sfuggito alla rete del mondo. Sicuro egli va, sicuro sta, sicuro siede, sicuro giace, e ciò perché egli si tiene fuori dal dominio del danno.
Così parlò il Sublime. Contenti si rallegrarono i monaci della sua parola.
Riscrittura a partire dall’italiano di De Lorenzo, da Pier Antonio Morniroli ed Enrico Federici.
Per distribuzione gratuita esclusivamente.
Testo: Majjhima Nikaya