MN 85: Bodhirâjakumâra Sutta - Bodhi, figlio del re

Questo ho sentito. Una volta il Sublime dimorava nella terra di Bhaggâ, presso la città di Sumsumâragiram, nel parco delle gazzelle della selva Bhesakalâ. Proprio allora Bodhi il figlio di re aveva fatto edificare una casa di campagna, detta Rosa di Loto, non ancora visitata da nessun asceta, religioso o altro essere umano. Quindi ora il principe Bodhi disse al giovane brâhmano Sañjikaputto: "Recati dal Sublime, inchinati ai suoi piedi, fagli i miei auguri di salute, forza e benessere, e digli: 'Acconsenta il Sublime a Bodhi, di offrire il pasto di domani presso di lui insieme ai monaci.' "

Così fece il giovane Sañjikaputto, e il Sublime acconsentì col silenzio.

Il principe Bodhi, avendo la mattina seguente fatto preparare squisiti cibi e bevande, ed avendo fatto stendere nel palazzo di campagna i festivi bianchi tappeti fin sul più basso scalino della gradinata, ordinò a Sañjikaputto di andare ad avvertire il Sublime che il pranzo era pronto.

Il Sublime, già pronto di prima mattina, prese mantello e scodella e si diresse verso la dimora di Bodhi che lo accolse davanti a casa con i rispettosi convenevoli d'uso e lo invitò ad entrare. Ma il Sublime si fermò davanti al più basso scalino della gradinata e Bodhi lo sollecitò a camminare sui tappeti dicendo: "Che il Sublime cammini sui tappeti, e ciò mi sia lungamente di bene e di salute." Così invitato, il Sublime rimase in silenzio. Per altre due volte Bodhi ripeté l'invito e per altrettante volte il Sublime rimase in silenzio, ma si volse indietro all'on. Ânando che disse al principe: "Si riavvolgano i tappeti; il Sublime non vuole camminare sulle stoffe: Egli ha riguardo per la gente povera."

Avendo Bodhi fatto riavvolgere i tappeti, fece preparare i sedili e il Sublime si sedette insieme ai monaci. Il principe curò di propria mano il Sublime e i discepoli con squisiti cibi e bevande. Quando il Sublime ebbe finito il pasto ed ebbe tolta la mano dalla scodella, il principe prese un sedile più basso e, sedutoglisi accanto, disse: "Mi è venuto questo pensiero: non si può conquistare il piacere col piacere; col dolore lo si può conquistare 40.

"Anche a me, figlio di re, prima del perfetto risveglio, quale imperfetto Svegliato, al risveglio solo anelante, era venuto questo pensiero. Ed allora, dopo qualche tempo, ancor giovane, splendido di capelli neri, nel fiore della virilità, contro il desiderio dei genitori piangenti, radendo capelli e barba, indossando l'abito fulvo, rinunziai alla casa per la mendicità. Così, divenuto pellegrino, cercando il vero bene, investigando per l'incomparabile, altissimo sentiero di pace, mi recai da Alâro Kalâmo e gli dissi: 'Desidero, amico Kalâmo, vivere la vita religiosa in questa dottrina e disciplina'. A queste parole, principe, egli mi rispose: 'Resta, onorevole! Questa dottrina è tale che un uomo intelligente, anche in breve tempo, avendola compresa ed avendo manifestata la propria maestria, ne resta in possesso'. Ed io, in breve tempo, appresi questa dottrina. Ora io potevo parlare di quanto avevo appreso, la parola della scienza e quella degli anziani; ed io e gli altri riconoscevamo che io sapevo e discernevo. Allora pensai: 'Alâro Kalâmo però non espone fedelmente l'intera dottrina in modo che io, avendola compresa ed applicata con maestria, ne resti in possesso. Eppure certamente egli ne possiede la conoscenza e il discernimento.' Allora mi recai da Alâro Kalâmo e gli chiesi: 'Fino a che punto esponi questa dottrina in modo che, avendola capita ed applicata con maestria, ne restiamo in possesso?' Così interpellato, egli espose [l'insegnamento de] il regno della non esistenza. Allora pensai: in lui non c'è proprio fede, non c'è forza, non c'è riflessione, non raccoglimento, non sapienza; in me vi sono tutte queste cose: se ora mi sforzassi di impossessarmi di questa dottrina? Ed io, in breve tempo, ne entrai in possesso. Quindi mi recai di nuovo da Alâro Kalâmo e gli dissi che ero anch'io in possesso della dottrina."

E lui: "Fortunati siamo noi, amico, veramente fortunati poiché riconosciamo l'onorevole quale vero asceta! Tu esponi la dottrina proprio come faccio io; te ne sei impossessato, la conosci come la conosco io. Orsù dunque, amico, dirigiamo entrambi insieme questa scuola!"

"Così dunque, principe, il mio maestro mise me, suo discepolo, pari a lui, e mi onorò di alto onore. Allora mi venne il pensiero: 'Questa dottrina non conduce al rivolgimento, non alla cessazione, non alla consumazione, non alla conoscenza, non al risveglio, non all'estinzione, ma solo all'apparizione nel regno della non esistenza.' Quindi io non apprezzando questa dottrina, non appagato da essa mi allontanai.

Così, cercando il vero bene, investigando l'incomparabile, altissimo sentiero di pace, mi recai da Uddako, il figlio di Râmo, e gli dissi: 'Desidero, amico Uddako Râmaputto, vivere la vita religiosa in questa dottrina e disciplina'. A queste parole, principe, egli mi rispose: 'Resta, onorevole! Questa dottrina è tale che un uomo intelligente, anche in breve tempo, avendola compresa ed avendo manifestata la propria maestria, ne resta in possesso'. Ed io, in breve tempo, appresi questa dottrina. Ora io potevo parlare di quanto avevo appreso, ed io e gli altri riconoscevamo che io sapevo e discernevo. Allora pensai: 'Uddako Râmaputto però non espone fedelmente l'intera dottrina in modo che io, avendola compresa ed applicata con maestria, ne resti in possesso. Eppure certamente egli ne possiede la conoscenza e il discernimento.' Allora mi recai da Uddako Râmaputto e gli chiesi: 'Fino a che punto esponi questa dottrina in modo che, avendola capita ed applicata con maestria, ne restiamo in possesso?' Così interpellato, egli espose [l'insegnamento de] il regno della non coscienza né incoscienza. Allora pensai: in lui non c'è proprio fede, non c'è forza, non c'è riflessione, non raccoglimento, non sapienza; in me vi sono tutte queste cose: se ora mi sforzassi di impossessarmi di questa dottrina? Ed io, in breve tempo, ne entrai in possesso. Quindi mi recai di nuovo da Uddako Râmaputto e gli dissi che ero anch'io in possesso della dottrina."

E lui: "Fortunati siamo noi, amico, veramente fortunati poiché riconosciamo l'onorevole quale vero asceta! Tu esponi la dottrina proprio come fa Râmo; te ne sei impossessato, la conosci come la conosce Râmo. Orsù dunque, amico, dirigi tu questa scuola!"

"Così dunque, principe, Uddako Râmaputto, mio condiscepolo, mise me al posto di maestro e mi onorò di alto onore. Allora mi venne il pensiero: 'Questa dottrina conduce non al rivolgimento, non alla cessazione, non alla consumazione, non alla conoscenza, non al risveglio, non all'estinzione, ma solo all'apparizione nel regno della non coscienza né incoscienza.' Quindi io non apprezzando questa dottrina, non appagato da essa mi allontanai.

Così, cercando il vero bene, investigando per l'incomparabile, altissimo sentiero di pace, passai per la terra di Magadhâ di luogo in luogo e giunsi presso il borgo di Uruvelâ. Là vidi un delizioso pezzo di terra, un sereno sfondo di selva, un limpido fiume fluente, atto al bagno, letificante, e tutt'intorno prati e campi. Pensai: 'Delizioso davvero è questo pezzo di terra, in esso vi è ciò che basta davvero per l'ascesi ad un nobile figlio che in essa vuole esercitarsi!' Ed io mi fermai là.

E mi vennero tre paragoni naturali mai sentiti prima.

Se vi fosse un'umida scheggia di legno, imbevuta d'acqua, e giungesse un uomo con una bacchetta da girare per fare fuoco, e dicesse: 'Accenderò il fuoco, produrrò luce!' Che ne pensi, principe, potrebbe egli farlo?"

"No di certo, Gotamo!"

"Perché?"

"Quella scheggia di legno è così bagnata che quell'uomo invano si sottoporrebbe a fatica e pena."

"Lo stesso è di quegli asceti o sacerdoti i quali non si sono distaccati dal corpo, non dai desideri, e che, non avendo dalla loro interiorità estratto né espulso ciò che nei loro desideri è voglia, infusione, languore, sete, febbre di desiderio, se poi provano sensazioni dolorose, cocenti, pungenti, sorgenti in loro, sono incapaci di conoscenza, di chiaroveggenza, dell'incomparabile perfetto risveglio; e se anche non provano tali sensazioni, anche allora sono incapaci di conoscenza, di chiaroveggenza, dell'incomparabile perfetto risveglio. Questo è il primo paragone che mi venne.

Poi mi venne questo secondo paragone.

Così com'è impossibile accendere il fuoco con una scheggia di legno imbevuta d'acqua, così pure è di quegli asceti o sacerdoti i quali si sono distaccati dal corpo e dai desideri, ma che, non avendo dalla loro interiorità estratto né espulso ciò che nei loro desideri è voglia, infusione, languore, sete, febbre di desiderio, se poi provano sensazioni dolorose, cocenti, pungenti, sorgenti in essi, sono incapaci di conoscenza, di chiaroveggenza, dell'incomparabile perfetto risveglio; e se anche non provano tali sensazioni, anche allora sono incapaci di conoscenza, di chiaroveggenza, dell'incomparabile perfetto risveglio.

Poi mi venne questo terzo paragone.

Se vi fosse una scheggia di legno, secca, asciutta, tenuta lontano dall'acqua, e giungesse un uomo con una bacchetta per fare fuoco, e dicesse: 'Accenderò il fuoco, produrrò luce!' Che ne pensi, principe, potrebbe egli farlo?"

"Sì, Gotamo!"

"Perché?"

"Perché quella scheggia di legno è così secca, asciutta, tenuta lontano dall'acqua che sarebbe adatta."

"Così è di quegli asceti o sacerdoti i quali si sono distaccati dal corpo e dai desideri, e che, avendo dalla loro interiorità estratto ed espulso ciò che nei loro desideri è voglia, infusione, languore, sete, febbre di desiderio, se poi provano sensazioni dolorose, cocenti, pungenti, sorgenti in essi, sono capaci di conoscenza, di chiaroveggenza, dell'incomparabile perfetto risveglio; e se anche non provano tali sensazioni, anche allora sono capaci di conoscenza, di chiaroveggenza, dell'incomparabile perfetto risveglio.

Quindi mi venne il pensiero: 'E se ora io, con i denti stretti e la lingua aderente al palato costringessi, comprimessi, abbattessi l'animo con la volontà?' Ed io così feci, e mentre lo facevo, dalle ascelle colava il sudore. Così come se un uomo forte, afferrando un uomo più debole per il capo o per le spalle, lo abbatte, così io abbattevo l'animo con la volontà. Ferma però era la mia forza, inflessibile, presente il sapere, irremovibile; ma infermo ancora era il mio corpo, non calmato da questo esercizio doloroso a cui mi sottoponevo. Tale sensazione dolorosa che mi era sorta, principe, non vincolava però l'animo mio.

Continuando ad immergermi sempre più in contemplazione senza respiro, trattenni le inspirazioni ed espirazioni dalla bocca e dal naso. E si sentiva nei canali uditivi uno straordinario suono di soffi fuoriuscenti, come il suono straordinario che esce dal mantice soffiante d'una fucina. Ferma però era la mia forza, inflessibile, presente il sapere, irremovibile; ma infermo ancora era il mio corpo, non calmato da questo esercizio doloroso a cui mi sottoponevo. Tale sensazione dolorosa che mi era sorta, principe, non vincolava però l'animo mio.

Continuando ad immergermi sempre più in contemplazione senza respiro, trattenni le inspirazioni ed espirazioni dalla bocca, dal naso e dalle orecchie, e straordinarie pulsazioni mi battevano la volta del capo, come se un uomo forte con l'acuta punta d'un pugnale battesse la volta del capo. Ma l'animo mio non cedeva.

Continuando ad immergermi sempre più in contemplazione senza respiro, trattenni le inspirazioni ed espirazioni dalla bocca, dal naso e dalle orecchie, e provavo nella testa straordinarie sensazioni, come se un uomo forte con un pezzo di solida cinghia mi stringesse la testa. Ma l'animo mio non cedeva.

Continuando ad immergermi sempre più in contemplazione senza respiro, trattenni le inspirazioni ed espirazioni dalla bocca, dal naso e dalle orecchie, e straordinarie palpitazioni mi lancinavano il ventre, come se un abile macellaio, o un suo garzone, mi tagliuzzasse il ventre con un coltello affilato. Ma l'animo mio non cedeva.

Continuando ad immergermi sempre più in contemplazione senza respiro, provai nel corpo uno straordinario bruciore, come se due uomini forti, afferrando per le braccia un uomo più debole, lo rotolassero, lo abbrustolissero su un braciere di carboni ardenti. Ma l'animo mio non cedeva.

Allora, principe, alcune divinità, vedendomi, dissero: 'Morto è l'asceta Gotamo!' Ma altre divinità dissero: 'Non è morto, ma sta morendo!' Ed altre ancora: 'Non è morto l'asceta Gotamo e non sta morendo; santo è l'asceta Gotamo: tale appunto è lo stato di santo'.

Allora pensai: 'Se ora mi astenessi interamente dal cibo?' Ma le divinità, manifestandosi, dissero: 'Non lo fare! Però se tu, degno, ti asterrai totalmente dal cibo, noi ti infonderemo per i pori celeste rugiada, e di questo ti sosterrai'. Allora, pensando che ciò sarebbe stata da parte mia una finzione, allontanai quelle divinità. E decisi di prendere poco cibo, quanto ce ne sta nel cavo della mano, zuppa di fagioli, di lenticchie, di piselli o di altri legumi. Così facendo il mio corpo divenne straordinariamente magro. Braccia e gambe divennero come canne nodose disseccate, il sedere divenne come il piede di un cammello, la spina dorsale come un rosario con le vertebre sporgenti; come da un vecchio tetto fuoriescono le travi, così facevano le mie costole; come in un profondo pozzo si scorgono appena le luci del fondo, così nelle mie orbite infossate si scorgevano appena le luci degli occhi; come una zucca selvatica, raccolta fresca, si fa poi vuota e grinzosa, così era la pelle del mio capo. Quando volevo toccare la pelle del ventre, sentivo la spina dorsale, e viceversa, tanto aderente alla spina dorsale mi si era fatta la pelle del ventre. E quando volevo vuotare feci ed urina, cadevo a terra. Allorché, per stimolare il corpo, strofinavo con la mano le membra, i peli, putridi alle radici, se ne cadevano.

Allora alcuni uomini, vedendomi, dissero: 'Livido è l'asceta Gotamo'. Ed altri: 'Non livido, è scuro l'asceta Gotamo'. Ed altri ancora: 'Grigio di pelle è l'asceta Gotamo'. Così mi si era alterato il lucido e puro colore della pelle per la scarsa alimentazione.

E pensai: 'Questo è il massimo di ciò che asceti e sacerdoti hanno provato in passato o proveranno in avvenire; più oltre non si va. Eppure, nonostante tutto ciò, non raggiungo la sovrumana, santa sufficienza della chiarezza del sapere! Vi è forse un'altra via per il risveglio?'

E mi venne in mente: 'Mi ricordo però una volta, nella proprietà del mio potente padre, sedendo alla fresca ombra d'un albero di melarosa, ben lungi da brame e da cose non salutari, d'aver raggiunto, in senziente, pensante, nata da pace beata serenità, la prima contemplazione. Che sia questa la via del risveglio? E mi venne la consapevolezza conforme al sapere: 'Questa è la via del risveglio! Temo forse questa felicità di là dal bene e dal male? No che non la temo. Ma non si può certo raggiungere facilmente quella felicità con un corpo così spossato: e se ora prendessi alimento solido, riso bollito con giuncata?' E così feci.

In quel tempo però, principe, erano intorno a me cinque monaci: 'Quando l'asceta Gotamo avrà conquistato la verità, ce la parteciperà. Ma quando videro che prendevo alimento solido, essi, disgustati di me, se ne andarono: 'Esagerato diviene l'asceta Gotamo, infedele all'ascesi, proclive all'abbondanza'.

Ma io, acquistando forze, ben lungi da brame e da cose non salutari, in senziente, pensante, nata da pace beata serenità, raggiunsi la prima contemplazione. Tale sensazione di piacere in me sorta non vincolava però l'animo mio.

Dopo compimento del sentire e pensare, raggiunsi l'interna calma serena, l'unità dell'animo, la non senziente, non pensante, nata dal raccoglimento beata serenità, la seconda contemplazione. Tale sensazione di piacere in me sorta non vincolava però l'animo mio.

In serena pace io restavo equanime, savio, chiaro cosciente, provavo nel corpo quella felicità di cui i santi dicono: 'L'equanime savio vive felice'. Così raggiunsi la terza contemplazione. Tale sensazione di piacere in me sorta non vincolava però l'animo mio.

Col distacco dal piacere e dal dolore, con la scomparsa della letizia e della tristezza anteriore, io raggiunsi la non triste, non lieta, equanime, savia, perfetta purezza, la quarta contemplazione. Tale sensazione di piacere in me sorta non vincolava però l'animo mio.

Con tale animo, saldo, puro, terso, incorruttibile, io rivolsi l'animo alla memore cognizione di anteriori forme di esistenza. Mi ricordai di molte diverse anteriori forme di esistenza, fino a centomila vite; poi delle epoche durante diverse formazioni, trasformazioni, formazioni e trasformazioni di mondi: 'Là ero io con tale nome, tale famiglia, tale stato, tale ufficio, tale piacere e dolore provando, così uscendo dalla vita; di là trapassato, entrai altrove di nuovo in esistenza, e così via; di là trapassato, eccomi qui rinato'. Così mi ricordai di molte diverse anteriori forme di esistenza, con le loro caratteristiche, le loro circostanze distintive. Questa conoscenza, principe, era stata da me, nella prima veglia della notte, raggiunta, dissipata l'ignoranza, conquistata la scienza, conquistata la luce, mentre io là con serio intendimento, rimanevo solerte, instancabile. Tale sensazione di piacere in me sorta non vincolava però l'animo mio.

Con tale animo, saldo, puro, terso, incorruttibile, io rivolsi l'animo alla cognizione dello sparire ed apparire degli esseri. Con l'occhio celeste, rischiarato, sovrumano, vidi gli esseri sparire e riapparire, volgari e nobili, belli e brutti, felici ed infelici, riconoscendo come gli esseri sempre secondo le azioni riappaiono: 'Questi signori esseri invero si conducono male in opere, in parole, in pensieri; biasimano ciò che è santo, stimano e fanno ciò che è perverso: con la dissoluzione del corpo, dopo la morte, essi vanno giù in perdizione, all'inferno. Quei signori esseri invece si conducono bene in opere, in parole, in pensieri; non biasimano ciò che è santo, stimano ciò che è retto: con la dissoluzione del corpo, dopo la morte, essi ascendono per buona via, in mondo celeste'. Così con l'occhio celeste, rischiarato, sovrumano riconobbi come gli esseri sempre secondo le azioni riappaiono. Questa conoscenza, principe, era stata da me, nella veglia di mezzo della notte, raggiunta, dissipata l'ignoranza, conquistata la scienza, conquistata la luce, mentre io là con serio intendimento, rimanevo solerte, instancabile. Tale sensazione di piacere in me sorta non vincolava però l'animo mio.

Con tale animo, saldo e incorruttibile, io rivolsi l'animo alla cognizione dell'esaurimento della mania. Io comprendevo conforme a realtà: 'Questo è il dolore', 'Questa è l'origine del dolore', 'Questa è la fine del dolore', 'Questa è la via che conduce alla fine del dolore', 'Questa è la mania', 'Questa è l'origine della mania', 'Questa è la fine della mania', 'Questa è la via che conduce alla fine della mania'. Così riconoscendo, così vedendo, il mio animo fu redento dalla mania del desiderio, dalla mania dell'esistenza, dalla mania dell'ignoranza. 'Nel redento è la redenzione': questa cognizione sorse. 'Esausta è la vita, vissuta la santità, operata l'opera, non esiste più questo mondo': compresi io allora. Questa conoscenza, principe, era stata da me, nell'ultima veglia della notte, raggiunta, dissipata l'ignoranza, conquistata la scienza, conquistata la luce, mentre io là con serio intendimento, solerte, instancabile rimanevo. Tale sensazione di piacere in me sorta non vincolava però l'animo mio.

Quindi pensai: 'Raggiunta è da me questa dottrina, profonda, difficile da comprendere, buona, preziosa, intuitiva, sottile, intelligibile dai sapienti. Ma la gente è avida di piacere, amante di piacere, bramosa di piacere; ad essa una tal cosa come la causalità, l'origine da cause, sarà poco comprensibile; e sarà difficile da comprendere anche il cessare di ogni distinzione, il distacco da ogni attaccamento, l'esaurimento della sete, la consumazione, la dissoluzione, l'estinzione. Se ora esponessi la dottrina, e gli altri non mi capissero, per me sarebbe una pena, un tormento.' Allora, principe, spontanei mi vennero questi versi, mai prima sentiti:

Quel, che da me fu raggiunto con pena, non è palesabile:
agli immersi nell'amore e nell'odio non conviene questa dottrina.
La dottrina, che va contro corrente, sottile, profonda, celata,
non la vedono i bramosi, che vivono in tenebra avvolti.

Così riflettendo, principe, l'animo mio tendeva all'inazione, non all'esposizione della dottrina. Allora Brahmâ Sahampati, avvedendosi della mia riflessione, pensò: 'Perirà veramente il mondo, se l'animo del Compiuto, del santo, perfetto Svegliato, tende a non esporre la dottrina!' Ed allora con la stessa facilità con cui un uomo forte piega o distende il braccio, disparve dal suo mondo ed apparve innanzi a me. Ed egli, scoprendo una spalla e giungendo le mani verso di me, disse: 'Esponga il Sublime la dottrina. Vi sono esseri di non bassa natura che non sentendo la dottrina si perdono: essi diverranno conoscitori della dottrina'. Ed aggiunse:

'Diffusa era dapprima in Magadhâ
dottrina impura, da indegni pensata.
Apri questa porta d'immortalità:
che sentan la dottrina ora scoperta!

Come chi stia in cima ad alto monte
E sul manifesto guardi tutt’intorno:
così, ascendendo sull'alta dottrina,
guarda, Tutt'Occhio, tu, senza dolore,
sul mondo immerso nel dolore e oppresso
dal continuo formarsi e trapassare.

Sorgi, o eroe vincitore di battaglie,
volgiti, duce senza macchia, al mondo!
Voglia il Sublime esporre la dottrina
conoscitori pure vi saranno!'

Quindi io ora, accogliendo l'invito di Brahmâ e mosso da compassione verso gli esseri, guardai con occhio svegliato il mondo. E vidi esseri di non bassa natura e di bassa natura, di facoltà acute e di facoltà ottuse, bene dotati e male dotati, bene intendenti e male intendenti, ed anche alcuni timorosi della rinunzia all'altro mondo. Come in un lago con piante di loto, alcuni fiori, celesti, rosei o bianchi, nascono, si sviluppano nell'acqua e vivono senza emergere; altri fiori raggiungono la superficie dell'acqua; ed altri ancora emergono dall'acqua: così vi sono esseri variamente dotati e sviluppati ed anche alcuni timorosi della rinuncia all'altro mondo. Ed allora risposi a Brahmâ Sahampati con la strofe:

'Aperta è d'immortalità la porta:
chi vuol sentire, venga pure e ascolti!
Repulsione intuendo io non volevo
L'alta dottrina palesar, Brahmâ.

Allora Brahmâ Sahampati disse: 'Acconsentito ha il Sublime ad esporre la dottrina!'; e, girando sulla destra, scomparve.

Quindi pensai: 'A chi potrei ora esporre per primo la dottrina? Chi la comprenderà presto? Quell'Alâro Kalâmo è sapiente, concentrato, intelligente, ben intenzionato; se esponessi a lui la dottrina egli la comprenderebbe presto'. Ma mi apparvero delle divinità che mi dissero che Alâro Kalâmo era morto da sette giorni. Allora pensai: 'Uddako Râmaputto è sapiente, concentrato, intelligente, ben intenzionato; se esponessi a lui la dottrina egli la comprenderebbe presto'. Ancora una volta mi apparvero delle divinità che mi dissero che Uddako Râmaputto era morto la sera prima. Chiedendomi allora a chi avrei potuto esporre la dottrina, pensai: 'Diligenti erano quei cinque monaci miei compagni che mi assistevano quando mi dedicavo all'ascesi: se io ora cominciassi ad esporre a loro la dottrina? Dove dimorano essi adesso? E con l'occhio celeste, rischiarato, vidi che si trovavano presso Benâres, alla Pietra del Vate, nel parco delle gazzelle. E, dopo esser stato per un po' presso Uruvelâ, mi misi in cammino verso quel luogo.

Muovendomi dall'albero del Risveglio verso Gayâ, mi vide un penitente nudo di nome Upako che mi disse: 'Sereno, amico, è il tuo aspetto: chiaro il colore della tua pelle e puro. Per che motivo, amico, hai rinunziato al mondo? Chi è il tuo maestro, di chi segui la dottrina?'

Così interpellato, risposi a Upako con queste strofe:

'Onnivincente, onniveggente io sono,
da tutte quante cose distaccato:
da tutto e dalla sete liberato,
autodidatta e senza alcun maestro.

Non v'è per me maestro, non compagno;
in ciel non v'è né in terra alcun mio pari.
Io sono il santo nel mondo, sono il supremo maestro:
unico sono perfetto Svegliato, estinto, raffreddato.

Per muover la ruota della dottrina, di Benâres vado alla città:
nel cieco mondo rimbombi il tamburo dell’immortalità'
[E lui:] 'Sicché tu dunque, amico, ritieni di dover essere venerato come l'illimitato Vincitore?'

'Miei pari certo sono i Vincitori che hanno esaurito la mania:
le male cose ho vinto; son perciò, Upako, un Vincitore!'

A queste parole, Upako, il penitente nudo, disse: 'Così
osse, amico!' e, scuotendo il capo e prendendo una via laterale, si allontanò.

Quindi io, principe, procedendo di luogo in luogo giunsi alla Pietra del Vate, nel parco delle gazzelle, i miei cinque compagni, vedendomi arrivare, si incitarono l'un l'altro: 'Ecco, fratello, che viene quell'asceta Gotamo, che ha abbandonato l'ascesi e s'è dato all'abbondanza: che egli non sia né salutato, né riverito, né gli sia tolto mantello e scodella. Gli si prepari un sedile: se vorrà, si sederà. Però, più mi avvicinavo, meno i cinque poterono persistere nel loro proposito. Alcuni, salutandomi, mi tolsero mantello e scodella, qualcuno mi offrì il sedile, un altro preparò l'acqua per i piedi, e tutti mi trattarono da fratello.

Dopo di che io dissi loro: 'Non trattate, monaci, il Compiuto come un fratello! Santo è il Compiuto, perfetto Svegliato! Ascoltate, monaci; l'immortalità è conquistata. Io insegno, io espongo la dottrina. Seguendo l'insegnamento, voi in poco tempo, ancora in questa vita, comprenderete, realizzerete e conquisterete la somma perfezione della santità: quel fine per il quale i nobili figli rinunziano alla casa per la povertà'.

A queste parole i cinque replicarono: 'Anche con la tua penitenza, fratello Gotamo, con la tua macerazione, con la dolorosa mortificazione, tu non hai raggiunto il sovrumano, ricco santuario della chiarezza del sapere: come mai tu ora che ti sei dato all'abbondanza, che hai abbandonato l'ascesi, puoi possederlo?'

Ed io risposi: 'Il Compiuto non ha abbandonato l'ascesi, non si è dato all'abbondanza. Santo è il Compiuto, perfetto Svegliato! Ascoltate, monaci; l'immortalità è conquistata'.

E per tre volte ci fu questo scambio di parole. Dopo di che io chiesi loro: 'Vi ricordate, monaci, che io abbia mai in passato parlato così?'

'No di certo, signore!'

'Allora ascoltate, monaci; l'immortalità è conquistata. Io insegno, io espongo la dottrina. Seguendo l'insegnamento, voi in poco tempo, ancora in questa vita, comprenderete, realizzerete e conquisterete la somma perfezione della santità: quel fine per il quale i nobili figli rinunziano alla casa per la povertà'.

Potei così finalmente, principe, convincere i cinque monaci. Prima istruii due monaci, mentre gli altri giravano per l'elemosina, e con ciò che raccoglievano, spartito in sei parti, ci sostentavamo. Poi istruii gli altri tre monaci, mentre i primi due andavano in giro per l'elemosina. Quindi i cinque monaci, da me istruiti ed ammaestrati, in poco tempo, ancora in questa vita, fecero a sé palese, realizzarono e conquistarono la somma perfezione della santità."

Dopo queste parole, il principe Bodhi disse al Sublime: "Dopo quanto tempo, Signore, un monaco che abbia il Sublime per insegnante, può comprendere, realizzare e conquistare la somma perfezione della santità?"

"Orbene, figlio di re, rispondi come credi: sei tu esperto nell'arte di montare elefanti, guidandoli con l'uncino?"

"Sì, Signore, lo sono."

"Cosa ne pensi, principe: se giungesse un uomo che sapendoti esperto si dicesse: 'Il principe Bodhi conosce l'arte di montare e guidare gli elefanti con l'uncino: alla sua scuola voglio apprendere quest'arte!' Ma egli fosse senza fede, infermo, astuto e simulatore, inerte, sciocco, e non potesse ottenere nulla dalle qualità opposte che sono necessarie; potrebbe quell'uomo apprendere alla tua scuola l'arte di montare e guidare gli elefanti?"

"Anche con uno solo di tali difetti, Signore, quell'uomo non potrebbe apprendere quell'arte: come lo potrebbe con cinque di quei difetti?"

"E se quell'uomo possedesse tutte le qualità necessarie?"

"Anche con una sola di tali qualità ce la farebbe: a maggior ragione con tutt'e cinque."

"Così appunto vi sono cinque qualità per l'ascesi: un monaco ha fede e confida nel fatto che il Compiuto è uno Svegliato. È sano, forte, dotato di buona digestione, non depresso né eccitato, capace di sopportare la media ascesi. Non è astuto né simulatore, si mostra com'è al maestro o agli esperti condiscepoli. Egli persiste energico, respingendo le cose dannose e accogliendo le salutari, risoluto, costante. È intelligente, dotato di quella santa penetrante intelligenza che vede sorgere e tramonto, e che conduce al completo annientamento del dolore.

Un monaco dotato di queste cinque qualità per l'ascesi, che avesse il Compiuto quale insegnante, per comprendere in vita, realizzare e conquistare la somma perfezione della santità, impiegherebbe sette anni.

Ma lasciamo stare sette anni. Dotato di queste cinque qualità, ed istruito dal Compiuto, impiegherebbe sei anni, cinque, quattro, tre, due, un anno.

Lasciamo stare un anno. Dotato di queste cinque qualità, ed istruito dal Compiuto, impiegherebbe sette mesi, sei, cinque, quattro, tre, due, un mese, mezzo mese, sette giorni, sei, cinque, quattro, tre, due, un giorno.

Lasciamo stare un giorno. Dotato di queste cinque qualità, ed istruito dal Compiuto, a sera istruito, nella mattina troverà la soluzione; nella mattina istruito, a sera troverà la soluzione!"

Dopo queste parole, Bodhi, il figlio di re, esclamò: "Oh Buddha, oh dottrina, oh buon annuncio della dottrina per cui uno, a sera istruito, nella mattina troverà la soluzione; nella mattina istruito, a sera troverà la soluzione!"

A queste parole il giovane brâhmano Sañjikaputto, là presente, si rivolse al principe Bodhi dicendo: "Il signor Bodhi ha esclamato solo quelle parole, senza aggiungere: 'Prendo per rifugio il signore Gotamo, la Dottrina e l'Ordine dei mendicanti!' "

"Non dire così, buon Sañjikaputto! Dalla stessa bocca della mia signora madre ho appreso questo: una volta il Sublime dimorava a Kosambî, nel giardino della proclamazione. Proprio allora la mia signora madre, incinta, si recò da lui, lo salutò riverentemente, si sedette accanto e disse: 'Questi che si trova nel mio ventre, Signore, sia egli un bimbo o una bimba, prende per rifugio il Sublime, la Dottrina e l'Ordine dei mendicanti: quale seguace lo accolga il Sublime, da oggi per la vita fedele!'

Ed un'altra volta, buon Sañjikaputto, il Sublime dimorava proprio qui, nella terra dei Bhaggâ, presso Sumsumâragiram, nel parco delle gazzelle della selva Bhesakalâ. E la mia nutrice, portandomi sull'anca, si recò là dov'era il Sublime, salutò riverentemente, sedette accanto e disse: 'Questo Bodhi, Signore, il figlio di re, prende per rifugio il Sublime, la Dottrina e l'Ordine dei mendicanti: quale seguace lo accolga il Sublime, da oggi per la vita fedele!' Così dunque io prendo ora per la terza volta per rifugio il Sublime, la Dottrina e l'Ordine dei mendicanti: quale seguace mi accolga il Sublime, da oggi per la vita fedele!"

Riscrittura a partire dall'italiano di De Lorenzo, da Pier Antonio Morniroli ed Enrico Federici. Per distribuzione gratuita esclusivamente.