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MN 129: Bâlapandita Sutta – Lo stolto e il savio

Questo ho sentito. Una volta il Sublime dimorava presso Sâvatthî, nella Selva del Vincitore, nel parco di Anâthapindiko.

Là il Sublime si rivolse ai monaci: “Tre sono, monaci, i segni, le manifestazioni e le tracce di stoltezza: ecco, lo stolto pensa cattivi pensieri, parla cattive parole, fa cattive azioni. Siccome si comporta così i savi lo riconoscono come uno stolto, un uomo non buono. Ora questo stolto già durante la vita prova in triplice modo dolore e tristezza. Se si trova in società o sulla strada o in piazza, e lì la gente dice che lo stolto uccide ciò che è vivente, prende il non dato, indulge alla lussuria, dice menzogne, usa vino, liquori e sostanze inebrianti e stupefacenti; egli pensa: ‘Ciò di cui parlano, mi riguarda, io consento in queste cose.’ Questo, monaci, lo stolto prova per primo, già in vita, come dolore e tristezza.

E inoltre lo stolto vede come i re, facendo arrestare un ladro, un malfattore, lo sottopongono a diversi supplizi come: battiture con fruste, verghe e bastoni; amputazioni di mani, di piedi, di entrambi, di orecchie, di naso, di entrambi; il calderone di pasta calda, il raschiamento con conchiglie, la bocca di drago, la ghirlanda di fuoco, la mano a fiaccola, il vestito di corregge o di scorze, la pelle d’antilope, la carne da amo, la pelle da moneta, la salagione, la tortura col ferro, la sedia di paglia, l’irrigazione con olio bollente, lo sbranamento coi cani, l’impalamento da vivo, la decapitazione con la spada. Allora lo stolto pensa: ‘Questi reati mi riguardano; i castighi potrebbe capitare anche a me.’ Questo, monaci, lo stolto prova per secondo, già in vita, come dolore e tristezza.

E inoltre quando lo stolto si è seduto su una sedia o s’è sdraiato sul letto o s’è disteso per terra, le cattive azioni in opera, in parola, in pensiero, da lui prima commesse, pendono, incombono su di lui. Così come le ombre delle cime delle grandi montagne alla sera incombono sulla terra, così incombono su lui le cattive azioni commesse. Allora lo stolto pensa: ‘Davvero non ho agito bene, salutarmente, previdentemente; ho agito male, crudelmente, demeritoriamente: percorrerò quel cammino che spetta dopo la morte a chi ha agito così.’ Così egli si rattrista, si lamenta e piange, si batte il petto, cade in disperazione. Questo, monaci, lo stolto prova per terzo, già in vita, come dolore e tristezza. Egli, essendosi condotto male in opere, in parole e in pensieri, finisce giù, dopo la morte, all’inferno. Chi ora, correttamente parlando dicesse: ‘Questa è l’unica cosa non desiderata, non bramata, non gradita’; si riferirebbe giustamente all’inferno, poiché neanche coi paragoni è facile esprimere quali siano i dolori infernali.”

A queste parole uno dei monaci disse: “Si può però, Signore, fare un paragone?”

“Si può, monaco. È come se si presentasse al re un ladro, un malfattore dicendogli di punirlo come gli pare. E il re dicesse: ‘Di prima mattina colpite quest’uomo con cento sciabolate.’ A mezzogiorno, sapendolo ancora vivo, dicesse: ‘Colpitelo di nuovo con cento sciabolate’. A sera, sapendo che vive ancora, dicesse di colpirlo ancora con altre cento sciabolate. Cosa pensate, monaci, non proverebbe quell’uomo, colpito da trecento sciabolate, dolore e tristezza?”

“Lo proverebbe anche colpito da una sola sciabolata; che dire poi con trecento sciabolate!”

Quindi ora il Sublime, prendendo una piccola pietra, della misura d’un pugno, si rivolse ai monaci: “È più grande questa pietra o l’Himavâ, il re dei monti?”

“Il re dei monti, lo Himavanto è più grande.”

“Così appunto ciò che prova quell’uomo non può essere paragonato al dolore dell’inferno.

I custodi infernali, accogliendolo, gli applicano il supplizio del quintuplo chiodo: gli infiggono un aculeo di ferro rovente in una mano, un altro nell’altra mano, un altro in un piede, un altro nell’altro piede, e un quinto in mezzo al petto: per cui egli ha da provare sensazioni dolorose, cocenti; né può finire il suo tempo finché la sua cattiva azione non è esaurita.

I custodi infernali lo spaccano con le scuri; lo mettono sottosopra e lo spaccano coi coltelli; lo aggiogano ad un carro e lo trascinano avanti e indietro su un terreno ardente; gli fanno ascendere e discendere una grande montagna di brace ardente; lo gettano sottosopra in un recipiente con ferro in fusione, per cui egli è cotto, ridotto in schiuma, e va su, giù e di traverso, provando sensazioni dolorose, cocenti.

Lo gettano poi nel grande inferno che ha quattro cantoni con quattro porte ai lati, ed è cinto da una muraglia di ferro, sormontato da una volta di ferro, e il suo pavimento di ferro arroventato irradia intorno calore per cento leghe.

Se io ora volessi continuare a raccontare dell’inferno, non mi sarebbe facile descriverne adeguatamente i dolori infernali. I golosi autori di cattive azioni risorgono in compagnia degli animali erbivori come cavalli, buoi, asini, capre, antilopi e così via; i golosi autori di cattive azioni divengono animali stercovori che sentendo da lontano l’odore dello sterco, accorrono: ‘Qui mangeremo!’ Così come fanno i sacerdoti che accorrono all’odore del sacrificio. Altri divengono animali che nascono, invecchiano e muoiono nell’oscurità come blatte, vermi, tarme e così via; altri nascono, invecchiano e muoiono nell’acqua come pesci, tartarughe, coccodrilli e così via; altri nascono, invecchiano e muoiono nell’immondizia, nel pesce, nella carne, nel latte putridi, nei letamai, nelle pozzanghere, nelle sostanze in putrefazione.

Se io ora volessi continuare a raccontare delle nascite animali, non mi sarebbe facile descriverne adeguatamente i dolori. Come se si gettasse in mare una nassa ad una apertura ed i venti la trascinassero a caso in tutte le direzioni e vi fosse una tartaruga con un occhio solo che emergesse una volta ogni cento anni; che pensate, quella tartaruga incapperebbe col collo nell’unica apertura di quella nassa?”

“Forse una volta dopo il corso di un lungo tempo.”

“È più facile che accada ciò, monaci, piuttosto che lo stolto caduto nel profondo possa raggiungere lo stato umano. Perché? Perché laggiù, monaci, non v’è retta e virtuosa condotta, opera salutare e meritoria: divorarsi l’un l’altro vige laggiù, uccidere il debole.

Se anche quello stolto, dopo eoni, raggiunge l’umanità, rinasce in basse famiglie di reietti, di cacciatori, di cestai, di carrozzieri, di spazzini; povere famiglie mal nutrite, mal vestite, in cui ottiene scarso cibo e misere vesti. Ed egli è brutto, spiacente, deforme, malaticcio, guercio o gobbo o zoppo o paralitico, bisognoso di cibo, bevanda e vestiario, privo di veicoli, ornamenti e profumi, di letto, di tetto e di luce. Egli si conduce in cattiva condotta in opere, in parole, in pensieri e, così facendo, dopo la morte finisce su cattivo cammino, all’inferno.

È grave se un giocatore di dadi al primo colpo sfortunato giocasse e perdesse il figlio, la moglie, tutta la proprietà e se stesso; di poco conto è quel colpo sfortunato, ma ben più grave è il colpo sfortunato dello stolto che per cattiva condotta in opere, in parole, in pensieri, dopo la morte finisce su cattivo cammino, all’inferno.

Questo è il completo, perfetto grado dello stolto.

Tre sono i segni, le manifestazioni e le tracce di saggezza: ecco, il saggio pensa buoni pensieri, parla buone parole, fa buone azioni. Poiché si comporta così, i savi lo riconoscono: ‘Un saggio è questo, un uomo buono’. E questo saggio già durante la vita prova in triplice modo piacere e letizia. Trovandosi in pubblico sente dire che il saggio si astiene dall’uccidere ciò che è vivente, dal prendere il non dato, dalla lussuria, dal dire menzogne, dall’usare vino, liquori e sostanze inebrianti e stupefacenti; allora il saggio pensa: ‘Ciò mi riguarda: tali cose si trovano in me ed io consento in queste cose.’ Questo è il primo piacere che prova il saggio.

E vede come i re castigano i ladri ed i malfattori, quali e quanti supplizi infliggano. E per la seconda volta prova piacere perché sa che quelle cose non lo riguardano.

E quando siede su una sedia, si distende sul letto o si distende per terra, le buone azioni discendono su di lui come fanno le ombre della grandi montagne quando scende la sera. Sapendo di aver agito bene, sa che il cammino di chi ha agito bene lo attende dopo la morte. Così egli non si rattrista, non si lamenta e piange, non si batte il petto, non cade in disperazione. Questo è il terzo piacere che il saggio prova in vita.

Egli risorge, dopo la morte in un mondo celeste. Chi ora, correttamente parlando, dicesse: ‘Questa è l’unica cosa desiderata, bramata, gradita’; direbbe appunto del cielo perché, monaci, neanche con paragoni è facile descrivere quali siano i piaceri celesti.” A queste parole uno dei monaci disse al Sublime: “Si può però, Signore, fare un paragone?”

“Si può, monaco. È come un imperatore che, dotato dei sette gioielli e dei quattro poteri, prova per ciò piacere e letizia. I sette gioielli sono: i carri di conquista, gli elefanti, i cavalli, le gemme, le donne, i cittadini e i ministri. L’imperatore è bello, dotato di somma prestanza, è superiore agli altri uomini: di questo primo potere è dotato l’imperatore. E l’imperatore è di lunga vita, di grande durata, superiore agli altri uomini: questo è il secondo potere. Ed inoltre ancora l’imperatore non s’ammala, è dotato di buona digestione, superiore agli altri uomini: questo è il suo terzo potere. E l’imperatore, così come un padre è caro e gradito ai figli, così è caro e gradito ai sacerdoti ed ai cittadini. E all’imperatore, così come ad un padre sono cari e graditi i figli, così sono cari e graditi i sacerdoti ed i cittadini.

Anticamente, monaci, quando il re imperatore, seguito da carri, elefanti, cavalli e fanti, usciva a diporto per il regno, i sacerdoti e i cittadini, gli dicevano: ‘Senza fretta procedi, Maestà, in modo che noi possiamo contemplarti a lungo’; e il re imperatore si rivolgeva all’auriga: ‘Senza fretta guida, auriga, in modo che io possa contemplare a lungo i sacerdoti e i cittadini’. Di questo quarto potere è dotato l’imperatore. Ora che ne pensate, monaci: il re dotato di questi sette gioielli e di questi quattro poteri, non proverebbe per ciò piacere e letizia?”

“Anche se fosse dotato di uno solo di quei gioielli egli proverebbe piacere: che dire poi con sette gioielli e quattro poteri!”

Quindi ora il Sublime, prendendo una piccola pietra, della misura d’un pugno, chiese: “Che ne pensate, è più grande questa pietra o lo Himavâ, re dei monti?”

“Lo Himavanto, re dei monti; non c’è paragone.”

“Così è del piacere che prova il re, in confronto al piacere celeste. Se ora quel saggio una volta, dopo eoni, raggiunge l’umanità, egli allora rinasce in eccelse famiglie di grandi guerrieri, di grandi sacerdoti, di grandi cittadini: ricche famiglie con grandi averi d’oro e d’argento, con vasti possedimenti e poderi. Egli è bello, piacente e gradito a vedersi, dotato di somma prestanza, ben fornito di cibo, bevanda, vesti, di veicoli, ornamenti e profumi, di letto, di tetto e di luce. Egli ora si conduce con buona condotta in opere, parole e pensieri; così facendo risorge, dopo la morte, in mondo celeste.

Come se un giocatore di dadi guadagnasse un capitale al primo colpo fortunato, di poco conto sarebbe quel colpo, ma ben più fortunato è il colpo per cui il savio, conducendosi bene, risorge, dopo la morte, in mondo celeste.

Questo, monaci, è il completo, perfetto grado del savio.”

Questo disse il Sublime. Contenti quei monaci approvarono le sue parole.

Riscrittura a partire dall’italiano di De Lorenzo, da Pier Antonio Morniroli ed Enrico Federici.
Per distribuzione gratuita esclusivamente.

Testo: Majjhima Nikaya